Per gentile concessione dell’autore e dell’editore, pubblichiamo questo brano dal libro “Tre compari musicanti” (Grenelle editore) dell’antropologo Paolo Apolito, tra i massimi studiosi di fenomeni religiosi e rituali, delle feste e dei ritmi musicali della civiltà contadina. I personaggi del romanzo, accolto dalla critica e dai lettori con un diffuso consenso, sono i contadini di un mitico paese della Lucania, emblema di tutto il Sud, colti nelle profonde trasformazioni tra XVIII e XIX secolo.
E poi Nunzio cuntava di Chichin’o Corto, il luparo che stava in montagna con Cicchilli. Aveva una cicatrice in faccia che andava dalla fronte alla bocca, passando sull’occhio, che era cieco ma saldato aperto dalla cicatrice. La ferita gliel’aveva fatta un lupo. Lui aveva imparato dal padre a fare il luparo; il padre era stato sbranato dai lupi e lui s’era messo a fare il suo mestiere. Stava sempre nei boschi, ci viveva, in Paese scendeva solo per le feste. Era basso che pareva un nano, con una barba lunga sembrava uno di quegli gnomi dei boschi, quelli che dicono che fanno andare i peli alle menne delle mamme delle creature appena nate se queste gli ridono appresso, ci bloccano il latte. Lo chiamavano ‘o Corto, ma era forte, era un animale dei boschi, un gatto selvatico, e teneva questa cicatrice in faccia che le donne incinte giravano la faccia se l’incontravano, per non rimanere fissate in quella figura, che poteva nascere il bambino con un merco in faccia. S’era fatto brigante Chichino, come tanti a quei tempi; lui era ragazzo e viveva con la mamma, e questa era “morta sotto un carico di legna”, scrissero sulla Carta di morte, mentre stava tornando dal bosco, povera donna, e allora Chichino era rimasto solo e se n’era andato per boschi vivendo dei lupi ammazzati. Poi l’avevano cercato i Briganti perché lui conosceva i boschi come nessuno. I Francesi l’ammazzarono quando lo presero insieme a Cicchilli. Gli tagliarono la testa e la misero su un palo in piazza, che i Francesi così facevano per mettere paura alla popolazione, tagliavano le teste e le facevano stare là giorni e giorni, dentro gabbiotti di ferro. Questa testa mozza di Chichino che teneva l’occhio aperto pareva fosse la Morte stessa che faceva l’occhiolino quando uno passava.
“Sì, che non si poteva passare più per la piazza – aggiungeva Paolina Serafina, la sorella di Nunzio monaca di casa – che quello ti guardava con quell’occhio aperto e cecato e ti diceva, vieni, vieni con me! Santa Sinforosa, dioneliberi!”, e insomma, questo Chichino si avvicinò al mulo di Nunzio, e disse: “Ma no, colonne’ – perché loro, i Briganti, a Giuseppantonio lo chiamavano colonnello, come era stato nominato da re Ferdinando – tu ci devi parlare in un altro modo a Nunzio, ci devi dire che ci tagli la gola a questo qua”. Tirò fuori il coltello e diede un colpo al collo del mulo, quasi non ci arrivava, lui era basso, glielo diede di piatto, ma il mulo lo sentì e scartò, e Nunzio lo sentì peggio di lui, che quel mulo era la sua vita.
Chichino rise, tutti risero. Tranne Cicchilli che s’arrabbiò, “Lascia stare a compare Nunzio!”.
Nunziò aveva sudato freddo, l’aveva sentito addosso come fosse in mezzo alla neve, sarebbe stato quasi meglio tagliasse la gola a lui, piuttosto che al mulo. A quei tempi campava grazie al mulo, che era stato la dote di Sabella: ci mangiava lui e la famiglia, non poteva bastargli quello che prendeva andando a sudare nelle terre degli altri.