La poesia di Gatto è meditazione della storia

Ricostruiti dodici incontri scolastici degli anni 80, promossi dai Martedì letteari, per la riscoperta del grande poeta salernitano: un patrimonio etico-estetico recepito con entusiasmo dai giovani di quaranta anni fa

Tempo di lettura 17 minuti
Alfonso Gatto: il poeta salernitano è tra le voci più alte della letteratura del '900 non soltanto italiano

Martedì 17 ottobre, alle 18,30, sarà presentato presso la libreria Feltrinelli di Salerno il nuovo libro di Giovanna Scarsi dal titolo “Schegge di silenzi lontani / Saggi sulla rivista Studium (1983-2015)”, curatore Stefano Pignataro. Del volume della autorevole docente e critica letteraria, che raccoglie un’ampia produzione saggistica, discuterano il filosofo del diritto e rettore dell’Università “Giustino Fortunato” Giuseppe Acocella, lo scienziato Giulio Tarro e il giornalista Andrea Manzi. Per gentile concessione dell’autrice e dell’editore, pubblichiamo uno dei saggi dell’opera, dedicato al poeta salernitano Alfonso Gatto, tra le voci più alte della letteratura del secondo Novecento.

L’autrice Giovanna Scarsi

Gli «Incontri di studio su Alfonso Gatto», promossi dalle Amministrazioni Provinciale e Comunale di Salerno e dai «Martedì Letterari», hanno inaugurato un modo nuovo di proporre e di leggere un poeta non opportunamente conosciuto né divulgato, relegato qual è stato in quella generazione di «minori» della stagione ermetica che esercitarono la poesia fra «privilegio» ed «impegno». I dodici incontri si sono tenuti, dal 14 marzo al 16 maggio 1984, presso le scuole superiori di tutta la provincia, fruendo del contributo dei migliori italianisti, grazie all’incontro vivo fra politica (enti locali) e cultura («Martedì Letterari», università, scuola), al fine di promuovere una scuola integrata nel territorio e, in attesa della sospirata riforma, rinnovata nelle tecniche metodologiche. Il seminario ha avuto infatti il merito di conciliare la dimensione scientifica con quella didattico divulgativa: mentre ha scavato nelle radici del «mestiere» di Gatto poeta, particolarmente difficile, nella misura in cui l’impreziosirsi della tecnica coincide col maturare della dolente «humanitas» di una stagione segnata dalla violenza e dalla solitudine della tragedia bellica, ne ha vivificato il messaggio fuori della sacralità iniziatica delle accademie degli addetti ai lavori, nei banchi di scuola, fra gli studenti che si sono rivelati ascoltatori attenti e sensibili.

La letteratura esce dal solotto

e diventa momento d’azione

È chiaro che proporre A. Gatto, ha voluto significare lo stimolo all’aggiornamento, con l’ausilio dell’interdisciplinarietà, su tutta la difficile e contraddittoria stagione ermetica, attraverso un suo rappresentante impegnato, alla cui conoscenza concorrono letteratura, storia, filosofia, arte, ecc. Ma soprattutto si è inteso riproporre in maniera attiva e con limiti di obiettività, la sintesi cultura-politica, che oggi è tanto più attuale in quanto svisata da faziosità partitiche: cultura che è politica nella misura in cui opera al di sopra delle parti contro le facili strumentalizzazioni e l’abuso del potere, quale misura critica del sistema. Una letteratura che esce dal salotto e dalla fucina degli addetti ai lavori e si pone come momento di azione attraverso la meditazione e la formazione alla responsabilità delle scelte.

Tra i banchi s’insedia

un luogo di riflessione

Su queste premesse, veniva scorsa per intero l’opera di Alfonso Gatto, per la prima volta letta e commentata nelle scuole superiori, dove si è fatta centro focale di meditazione operativa. La riscoperta del testo per il testo ha significato la riproposta di una classicità perenne, anche nel moderno, di un linguaggio tutto interiore, nella pregnanza caratterizzante della sua essenzialità, in una poesia sostanzialmente pura quanto storicamente impura, mentre l’attenzione ad un modello di «humanitas» che sottende l’esercizio letterario, rispolverato dalle scorie di tanta retorica di parte o no, ha sollecitato problemi e suggestioni, dai quali è venuta fuori, in chiara luce, la figura del poeta, che visse in prima persona l’amara sostanza della sua età, lui stesso dimidiato – come vedremo – fra «privilegio » ed « impegno».

Gatto, dunque, poeta non per i giovani, ma dei giovani. Poeta di giovinezza, cioè, non solo perché la sua lirica risplende di un rischio perenne di giovinezza, nel timbro irriducibile di un’arte irriducibile, impervia anche nella dolcezza quanto ed ancor più perché soffre con entusiasmo candido e costruttivo la sua funzione di poeta povero: «Alleluia, alleluia / nel fondo della tasca / è la dolcezza buia / del povero».

Quei versi divenuti

patrimonio giovanile

Il poeta, vittima della sua stessa poesia, quale portatore e provocatore di verità, in rapporto di amore e di sfida col mondo: «essere e non avere», al di sopra del potere. Di qui la risonanza della sua parola, liricamente lieve, quanto densamente significante e la profonda ed attuale significazione di una poesia, la sua, altamente civile e religiosa – è stato notato – nella misura in cui è intimamente cristiana. Resistenza, di fatto, – in particolare ai giovani – si chiarisce nel Preambolo alla Storia delle vittime2, non nel senso politico bensì morale: dimensione categorica, perenne atteggiamento dello spirito di provocazione alla verità ed alla lotta contro il compromesso e l’abuso del potere, per un’autentica rivoluzione, che è innanzi tutto rinnovamento delle coscienze. Una dimensione universale della Resistenza quale si evince con suggestione di toni magici e surreali in particolare, in Il Frenatore addormentato3: la gioventù come poesia è ciò che al mondo non si può tacitare ché niente, né la violenza né l’oppressione, vince quell’ombra di gioventù.
La continuità ideale vita-morte in un rinnovato recupero della Rivisitando Alfonso Gatto: la poesia fra «privilegio» ed «impegno» simbologia gramsciana della crisalide in proiezione trascendentale: la vita che diventa morte, la morte che crea la vita. Curiel che «morto ci indicava la grande strada della Primavera», Giolli «un uomo piccolo uomo… occupato dall’essere a non aver nulla… è morto nel passato… ma verrà con l’avvenire», i martiri di Piazzale Loreto: «ed ogni giorno… ogni ora eterna brucia a questo fuoco, / ogni alba ha il petto offeso da quel piombo / degli innocenti fulminati al muro»4, infine le tante vittime che con l’orgoglio vittorioso del «saper perdere» hanno fatto la storia.

Dalla morte alla vita: «Le scolaresche bianche e celesti allineate davanti alle scuole di campagna» cui il poeta sportivo, cronista del giro d’Italia rivolge il suo sorriso amicale, accanto agli «operai in manica di camicia e col berretto di carta in testa, appesi alle impalcature»; il bimbo, momento di amore e di vita e l’infanzia ragione di recupero di élan vital attraverso il ritorno alle origini, sono le forze del domani che vincono la morte: «Inventaci la morte / o bambino i tuoi sogni come d’un gioco infranto / rimasero alla sorte / del vento, ai suoi disegni / di nuvole di pianto. / Ogni giorno che passa / è un cadere brutto nell’ombra che ci invita / Irrompi a testa bassa / nel ridere fanciullo, devastaci la vita / un’altra volta e vivi»5.

La desolazione tutta panteistica di Carducci ed Hugo, innanzi alla morte del bimbo, qui è vinta da quell’élan vital, che nell’infanzia si esprime e trionfa, comunque, sulla morte. Come l’Amore: «Nel rimorso, nella speranza sono creature vive, hanno un nome che le memorie e le testimonianze tramanderanno. […] Sono state donne belle o con una nostalgia dell’avvenenza degna della loro anima»6. In conclusione, «Amore della vita» che si leva dalla contemplazione della morte: «Tutto di noi gran tempo ebbe la morte» ed ora «il nostro dolce parlare nel mondo senza paura…». Al di sopra della morte l’Amore: vivere con gli altri come gli altri vivono in noi; muovendo dalla morte e guardando la morte». «Tornerai dalle musiche morte, dalle gronde / dei tuoi mattini, amore che riprendi / dal naufragio l’ala del tuo volo». La morte, dunque, che riesce ad avere, «il dolce rumore della vita», la vita, il suono vuoto della morte.

Tre punti salienti

per penetrare l’opera

Dagli incontri del Salernitano, terra natale del Poeta, è emerso pertanto un bilancio sull’opera del Gatto che direi decisamente positivo e che vorrei sintetizzare in tre punti:

1. Il linguaggio di Gatto, l’impegno della sua vita e della sua opera, l’alta religiosità della sua laicità, all’insegna del rispetto della dignità della persona umana, la dimensione ideale della Resistenza, il ruolo del poeta povero, vittima della sua poesia, in quel suo essere al di sopra del potere, la sua lezione dell’aver di meno per essere di più, sono valori largamente penetrabili e penetrati – come dall’esperienza diretta della scrivente quale Presidente dei «Martedì Letterari» – in una scuola che resta pur sempre scuola di valori, ancor più allorché si spoglia dell’arroganza del potere del sapere assoluto.

2. La lettura diretta dei testi – sgombrando il terreno da ogni sorta di pregiudizio settoriale – ha suffragato il supporto della lezione filologica quale limite obiettivo da ogni rischio di devianza nell’interpretazione di una poesia d’«impegno». A conferma, la sollecitazione avvertita ed espressa della pubblicazione dell’opera omnia del poeta, in particolare, della prosa scarsamente valorizzata che, pertanto, si è arricchita di inediti consegnati, nel corso del seminario, da Spagnoletti e da Valli. Stimolante la riproposta da parte di Achille Serrao de La sposa bambina, un raffronto costruttivo prosa-poesia, nell’ambito di tecniche e stilemi in reciprocanza di osmosi, è valso a chiarire ulteriormente la difficile poetica gattiana.

3. La sacralità del linguaggio poetico di Gatto, sfaccettato sui testi in tutta la molteplicità e complessità degli aspetti e dei problemi estetici, ha sollecitato la definizione di un inquadramento definitivo della sua opera nella poesia del Novecento, in quel suo stare in bilico fra i due poli fra cui la stessa poesia di «contenuto», allorché le poetiche del «non detto» e l’elaborazione della sinestesia fra le arti venivano a scontrarsi con la sostanza umana di un’epoca lacerata dalla violenza e dalla morte ed il dramma quasimodeo di Alle fronde dei salici era quello del poeta, alla ricerca di un’identità in un’epoca senza identità.

Il forte rapporto

con musica e pittura

Uno spazio tuttora scarsamente esplorato, che richiederebbe ulteriore approfondimento dell’analisi degli sperimentalismi linguistici della poesia di A. Gatto, è il rapporto della sua poesia con le arti figurative e la musica, cui l’indefinitezza pregnante di sostanza fonica della sua pittura verbale inclina. Uno studio recente di F. D’Episcopo8 – presentato nel corso del seminario stesso – analizza l’attività di Gatto critico d’arte nel quadro della produzione artistica del suo tempo, onde definire l’influenza che questa ha esercitato nella formazione della sua poetica e della sua poesia.

Ne vien fuori una rassegna accurata delle forme artistiche nell’ambiente di formazione del poeta salernitano, in cui l’acume del critico individua e definisce lo spazio di Gatto poeta, pittore e critico d’arte. Per noi il problema si pone piuttosto in termini filologici, come per la prima volta l’avvertirono gli Scapigliati, che dalla coscienza della precarietà espressiva della parola poetica e non sulla base di semplici sperimentazioni Rivisitando Alfonso Gatto: la poesia fra «privilegio» ed «impegno» nei vari livelli delle tre arti, tentarono l’osmosi della poesia nelle arti sorelle, da esse mutuando tecniche e moduli atti a compensare od integrare i limiti espressivi del linguaggio della poesia. Nel caso di Gatto, non si tratta tanto di stabilire i rapporti vivi fra i protagonisti del panorama artistico del suo ambiente di formazione e quanto gli stessi abbiano influito sulla poesia, a livello di mero gusto e scelta di interessi, quanto piuttosto di chiarire meglio la sua poetica del «non detto», che è la struttura portante del suo discorso poetico, su basi tecniche di analisi dei linguaggi delle arti affini, onde definire l’indefinibilità della pregnanza evocativa della parola poetica e la sua stessa oscurità caratterizzante. Ciò in un genere di poesia ritmo che si sostituisce alla tradizione della poesia-struttura-logica. Il che non significa ricalcare il luogo comune di un linguaggio «musicale» o «pittorico» per il sofferto uso del colore-suono, proprio della natura libera ed istintiva del poeta, quanto indagare fino a qual punto la vigile coscienza dell’inadeguatezza del verbum poetico abbia portato l’artista polivalente a fruire di mezzi espressivi della musica e della pittura del suo stesso periodo, entro quali limiti e con quali risultati. Ne potrebbe derivare un ulteriore contributo a un campo di ricerca difficile su questa difficile poetica del «discorso» che sostituisce quella orfico-petrarchesca della memoria e nella quale la memoria entra come componente illuminante questo silenzio assenza della poesia gattiana, quel «vedere che basta a non vedere» che è un «vedere linguistico» tutto poggiante, cioè, sulla «Forza degli occhi», forza linguistica che raggiunge la propria acme poetica nella cecità di Omero.

Al riguardo, Barberi Squarotti nella relazione autorevole di apertura, muove da un brano campione delle Poesie (1939): «Canto alle rondini», per illuminare gli aspetti fondamentali della poesia di Gatto e le sue ragioni di appartenenza al più vasto panorama della poesia del ‘900. L’anfibologia del titolo («Canto» = «grido brullo» delle rondini ed anche «cantone», «angolo») e l’organizzazione intorno dia stessa del testo ricco di elementi patetici, sorretti in unità dalla tensione del sentimento, ma privi di soggetto e di logica compositiva, sottolinea la tendenza del poeta allo straniamento del significato univoco da attribuire ad oggetti, situazioni, presenze e, dunque, la caratteristica fondamentale della sua esperienza poetica, in quel suo «attingere a piene mani dai depositi del patetico poetico, anche in rapporto al paesaggio, ma per annullarne la semanticità a favore del puro ritmo compositivo». Un genere di poesia in cui «la dispositio» e «la compositio» operano indefinitamente sui materiali di un’«inventio», che si raccoglie nell’ambito del patetico.
Ciò che è importante nella poesia del nostro – chiarisce l’illustre critico – è «l’estrema leggiadria e l’enorme sapienza degli accostamenti e dell’uso dei materiali, non il significato vero e proprio non la carica di sentimento, che pure hanno in sé, ma il modo sempre variato e nuovo con cui il poeta li sistema nei testi perfettamente costruiti su una metrica per lo più regolare di accenti e di misure». Su queste premesse, si chiarisce la struttura e la tecnica compositiva della poesia gattiana che attraverso i giochi caratterizzanti dell’anfibologia, dell’ambiguità, della contraddittorietà dei parallelismi ecc. realizza l’absolutum della liricità tendente ad esaltare, pur lontana nella musicalità di maniera, la pura dichiarazione dell’immagine e del dato fantastico su quello logico.

Un discorso poetico

da classico del ‘900

Ancora brani campione, soprattutto da Poesie d’amore sovvengono a definire un discorso poetico «classicamente novecentesco» nella caratteristica fondamentale di «procedimento per associazione verbale, per flusso di immagini più che di pensieri, per concatenarsi di forme», non tendente ad una conclusione, ma aperto ad una continuità indefinita, che ha la sua concretizzazione più ferma nell’impiego del verso breve, congegnato in modo da dare il senso di questa apertura indefinita del discorso e del ritmo poetico. Si delinea così la genesi interna del testo di Gatto: da una parola che si riflette specularmente nei versi e dà origine, per analogia fonica o semantica, ad una conclusione remotissima e ritornante all’inizio, attraverso un rampollare di immagine da immagine costituente una catena di associazioni per ripetizione e moltiplicazione speculare o per puro accertamento fonico e flusso di immagini, che si trovano nel retroterra della memoria poetica. La conclusione dell’analisi volge a definire il posto autonomo della poesia di Gatto, stabilendo le dovute distanze e dalla tradizione musicale in dialetto e in lingua: Di Giacomo e Gaeta e dai contemporanei cui è stato spesso accostato: Luzi e Sereni, nel quadro del Novecento italiano ed europeo da cui egli ha tratto e cui ha recato stimolazioni ed ispirazioni.
«È una poesia di estrinsecazione dell’inconscio fantastico, remota da ogni simbolismo e anche da ogni prospettiva surreale e da ogni ricerca di risoluzione della parola come significato nel significante (come accade a Bigongiari ed anche a Luzi): flusso di immagini che ha l’ambizione della durata infinita, della continuità senza interruzioni e rotture»10. Dal «privilegio» all’«impegno», di mezzo il trauma bellico: a porre il punto sulla questione è la seconda relazione autorevole di apertura, tenuta da Stefano Jacomuzzi che, sgombrando subito il terreno da pregiudizi di partito sul Rivisitando Alfonso Gatto: la poesia fra «privilegio» ed «impegno» termine «impegno», chiarisce il senso ed i limiti di «un’esperienza bellica», che fu sentita e vissuta con testimonianza di una tragedia collettiva, espressione di una condizione umana perenne che è «storia delle vittime».

Si definisce il senso della «gran capriola»11 che il Manacorda indicava per i poeti come Quasimodo e gli altri della generazione di Gatto sui quali la guerra agì come shock che operò la rottura col passato e con tutti i loro idoli, rivelando la terrestrità brutale della morte.
Nel caso di Jacomuzzi, mutuando una sua stessa indicazione estetica: «La poesia non è un’enfasi né una retorica né una scommessa: è accertamento di realtà», in una tavola rotonda sulla letteratura europea verso gli anni Settanta, definisce i limiti di questa esperienza quale esperienza soprattutto di poesia, che si tradusse nell’acquisizione di una maturità definitiva di contenuti, un abbandono del «gioco poetico» per un più profondo «accertamento di realtà». Per una poesia che, per Gatto stesso, non vuole essere né enfasi né retorica, i mutamenti non possono essere che approfondimento degli ascolti, affinamento degli strumenti espressivi per le nuove, inedite offerte che possono provenire dalla realtà esterna e dalle interne corrispondenze, non la scoperta improvvisa di una diversa vocazione di cantore dell’impegno civile o degli esaltanti peana»12.

Il tempio della tradizione

con Gatto diventa casa

Dunque, non più i toni epici, piuttosto di canto popolare. La poesia è la «casa», non più il «tempio» della tradizione, in un’ora in cui, cadute le illusioni, essa non celebra né il vincitore né il vinto, ma si ritrova con noi nelle cose di sempre e con un linguaggio inedito, ma che parli anche agli altri, ora che vivere non è più offerta gratuita, bensì ostinata conquista in una storia che è storia delle vittime.
«Amore della vita» ai margini della contemplazione della morte risvegliava la lettura sensibile e suggestiva tenuta da G. Manacorda, per una poesia-meditazione della storia, delle liriche più toccanti della Storia delle vittime. Interpretazione che, nonostante il più spiccato accento civile e politico fedele alle sue premesse metodologiche, confermava la vittoria del canto sull’impegno, come testimonia – sottolinea lo stesso critico in un’indicazione felice della sua storia letteraria citata – il ritorno del poeta a sé stesso ed ai suoi accenti del Pascoli dell’«Aquilone».

Anche la poesia della guerra, è la conclusione autorevole di Jacomuzzi, in un poeta che per lui è soprattutto poeta di amore, resta legata alle sue origini di «canto di amore e di scoperta di modi nuovi di dire cose antichissime con fortissime concentrazioni di concetti e di scatti analogici di immagini e di estese melodie, per il recupero e l’affidamento dei sentimenti e dei ricordi». Guerra significò, dunque, vera esperienza, non semplice registrazione di cronaca e recupero memorialistico, che maturò nel suo canto un soffio di pietà teso nel massimo di concentrazione che dà luogo alla sua oscurità caratterizzante: «un calore doveroso, con un più di sofferenza e un meno di dispersione effusiva». «Al poeta è concesso saltar fuori dalla storia per raccontarne un’altra, quello dello star insieme in altro modo e non solo per favoleggiare. Dobbiamo essergliene grati»13.

È significativo che lo stesso Manacorda, che rileva nella svolta di Gatto una «promessa di maggiore aderenza alle verità storiche, all’impegno sociale che spezza la solitudine dell’isola-uomo, concordi che questa resti pur sempre «una componente collaterale» e che «gli impegni morali e civili o, in genere, i richiami di una realtà concreta si congiungono ormai come una seconda passione naturale inserita dall’interno nell’originaria disposizione poetica umana»14.

La lettura filologica dei testi, seguita negli incontri a cura di illustri specialisti (Manacorda, Storia delle vittime; Giannantonio, Osteria flegrea; Dolfi, Desinenze, Spagnoletti, Morto ai paesi; Valli, La madre e la morte; Serrao, La sposa bambina; Menna, Gatto e le arti visive; Scrivano, La Poesia di Gatto) confermava questa direzione interpretativa, emersa nella giornata introduttiva, attraverso le indicazioni dei critici torinesi e trovava riscontro nella sintesi conclusiva su Gatto e la cultura fiorentina, in cui G. Luti definiva, in un panorama completo ed appassionante, il ruolo svolto dalla cultura fiorentina in quegli anni e la sua influenza sulla formazione del poeta.

Sintesi tra canto puro

e urgenza della materia

Vero è che la singolarità di questa poesia è nella capacità di sintesi fra il canto «puro» con l’urgenza della materia calda di realtà vissuta e sofferta.

Sintesi nella quale – a nostro avviso – coesistono il vigile senso critico del «guardiano del faro» e «l’humanitas» viva del cantore assorto del dolore e della solitudine di cui la guerra è solo un’espressione. Un incontro fra poetica della «parola» e poetica «dell’uomo», in cui i due tempi non sono scanditi come in Quasimodo quali tappe di un iter, bensì si unificano in rapporto di reciprocanza dialettica: il poeta dell’amore convive col poeta della morte in un canto che, comunque, resta di fede, se la vita è prodotto, ora, non di offerta ma di «resistenza», in virtù della quale essa si strappa alla distruzione della «feritas» attraverso una riscoperta di sentimenti di tenera pietà, in cui si incontrano la solidarietà, la fratellanza, la simpatia per il suo Sud.

È la vittoria della vita sulla morte. Il che non comporta l’approdo ad Rivisitando Alfonso Gatto: la poesia fra «privilegio» ed «impegno» una chiarezza di discorso verso gli altri, come in Quasimodo, perché in Gatto la volontà di colloquio, non meno viva, si concretizza in una capacità rara di concentrazione sempre più densa in sé stesso, che ammorbidisce toni e registri, ma incupisce vieppiù il canto nel carcere di quell’oscurità tutta gattiana, che suggella il prevalere, sul discorso formale, della tensione interiore di sentimento: un ritmo tutto di dentro che si fa il «soggetto» unico, creatore di quel «continuum» di emozioni e suggestioni che, ancor più nelle poesie di guerra, è il prodotto dell’abile «artificium» del guardiano del faro, capace di riportare la parola alla cosa e viceversa, in virtù della riscoperta di una verginità del «verbum» che pochi seppero coltivare.

In questa lezione di «forma» (nell’accezione desanctisiana) è la ragione prima di appartenenza di Gatto, «poeta di provincia», alla schiera di poeti del Novecento italiano ed europeo. Resta ancora tanto da rivisitare: in particolare, il rapporto sempre aperto fra melos e contenuto, fra poesia di ritmo e di significato: se e fino a qual punto ed entro quali limiti, la sintesi, qui con umiltà di riserva affacciata, si effettui. In più, il rapporto con le arti figurative e gli influssi sulla definizione della poetica e del linguaggio poetico. Qui gli incontri salernitani hanno fatto luce, hanno aperto ed additato nuovi spazi di ricerca, sollecitando stimolazioni ed ispirazioni.

Infine, «Amore della vita» ai margini della morte: un poeta che la vita è riuscito a richiamare in un canto di Storia delle vittime, suscitando «speranze di vita antica e nuova», al di là delle disquisizioni metodologiche, che ha inciso una data e posto un elemento focale nella meditazione operosa della gioventù studiosa, cui il seminario si è particolarmente indirizzato con efficacia di risultati.
«Non venga la notte, non venga la morte / degli oziosi re di pietra, / non venga la legge delle paure. / Chi vive è leggero, / è stanco in tutto il mondo. / Chi vive è senza gloria»15.


NOTE
[1] G. Manacorda, La poesia tra privilegio ed impegno, in Storia della letteratura italiana, Roma 19723, pp. 127-207.
[2] A. Gatto, Preambolo a Storia delle vittime, Milano 1966, p. 14.
[3] «I treni merci perdono nel cielo / l’alba di Roma, ha il fresco di una porta / la campagna più verde della rosa. / Un ragazzo annottato nel casello / ha la lanterna morta contro il cuore / e la bandiera al piede, sta sognando / di chiedere per tutti il suo perdono. / È strano, forse portano già al muro / l’ombra di gioventù che gli sorrise». La lirica è riportata nel saggio La poesia di A. Gatto, di G. Pampaioni, in Un poeta e la sua città, Salerno 1968, p. 29.
[4] A. Gatto, «Per i martiri di Piazzale Loreto», in Storia delle vittime, cit., p. 62.
[5] A. Gatto, «Lelio», in Poesie, Milano 1961, p. 210.
[6] A. Gatto, Introduzione a Poesie d’amore, Milano 1973, p. 16.
[7] A. Gatto, «Amore della vita», in Storia delle vittime, cit., p. 51.
[8] F. D’Episcopo, Gatto oltre la letteratura, Salerno 1984.
[9] G. Barberi Squarotti, Gatto e la poesia del Novecento. Relazione introduttiva al convegno di studi citato. Le prolusioni del 14 marzo furono, oltre questa, quella su: Gatto e l’esperienza bellica di S. Jacomuzzi e la testimonianza di E. D’Aniello, Il poeta e la sua città.
[10] G. Barberi Squarotti, cit.
[11] G. Manacorda, op. cit.
[12] S. Jacomuzzi, cit.
[13] I brani citati sono della relazione di S. Jacomuzzi, cit.
[14] G. Manacorda, op cit., p. 169.
[15] A. Gatto, «Vivi», in Storia delle vittime, cit., p. 36

Previous Story

Coup de chance, la casualità della vita per Woody Allen

Next Story

Il pensiero divergente contro la povertà emozionale