La moria delle vacche (da mungere): come fare la storia con autogoal sociali

Esercizi che per decenni hanno scandito la vita quotidiana delle nostre comunità si spengono uno dopo l’altro: non sono semplici chiusure commerciali ma estinzioni di specie, sintomi di un’involuzione sociale che ridefinisce il volto del nostro Paese.

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Nel chiasso assordante delle città italiane, il crepitio delle saracinesche che si abbassano per sempre a stento si avverte; eppure barbieri, parrucchieri, salumieri, fruttivendoli, mercerie, tappezzieri, per non parlare delle edicole praticamente scomparse, sono stati decimati; per il momento tengono tabacchi, friggitorie, pizzerie e bazar cinesi… ma anche per loro non sarà facile galleggiare.

Esercizi che per decenni hanno scandito la vita quotidiana delle nostre comunità si spengono uno dopo l’altro: non sono semplici chiusure commerciali ma estinzioni di specie, sintomi di un’involuzione sociale che ridefinisce il volto del nostro Paese.

Il fenomeno non è nuovo, ma tra il 2023 ed il 2024 si è acuito fino a diventare una vera emergenza: nel mio quartiere – di certo non abitato da nullatenenti – è rimasta una sola salumeria, un fruttivendolo, una macelleria e il solito supermercato… il resto è una pletora di battenti chiusi. Alla base di questo declino ci sono cause economiche, politiche ma soprattutto sociali che si intrecciano, mostrando una crisi di sistema che colpisce non solo chi perde la propria attività, ma la comunità stessa.

Resistere non basta: i piccoli esercizi sono stati per anni il cuore pulsante dell’economia locale, luoghi dove il lavoro si intrecciava con le relazioni umane, creando un valore che andava oltre il profitto. Tuttavia, la situazione economica attuale ha reso impossibile per molti continuare a operare. I costi delle utenze e dell’energia (che paghiamo il triplo della Spagna e il doppio della Francia), si sommano a una pressione fiscale tra le più alte d’Europa. A ciò si aggiunge una burocrazia lenta e complessa, che spesso rappresenta un ostacolo insormontabile per chi gestisce micro attività familiari.

La competizione con i supermercati -dove, offerte a parte, costa tutto in più che dal dettagliante – che quando aprono fanno il vuoto intorno a sé e che quando chiudono fanno ancora peggio lasciando decine di persone per strada, hanno aggravato la situazione. Le piattaforme di commercio online poi, favorite da regimi fiscali più agevoli e dalla possibilità di operare su scala globale, offrono scelte e servizi che un piccolo commerciante non può nemmeno sognare. Così, anche chi vorrebbe sostenere il negozio sotto casa si trova a cedere alle sirene del risparmio e della comodità.

Il fallimento delle politiche di sostegno: in questo scenario, ci si sarebbe aspettati un intervento deciso da parte delle istituzioni. Tuttavia, il Governo italiano, pur riconoscendo la gravità del problema, non è riuscito a mettere in campo misure efficaci per arginare l’emorragia. Gli sgravi fiscali e gli incentivi promessi si sono spesso rivelati inadeguati e/o risibili, lasciando migliaia di piccoli imprenditori senza alcuna rete di protezione.

Le agevolazioni per far fronte al caro energia, ad esempio, sono arrivate tardi e si sono dimostrate insufficienti per molte attività, soprattutto quelle che operano con margini ridotti. Allo stesso modo, i fondi destinati alla digitalizzazione e all’innovazione non sono stati accompagnati da un’effettiva semplificazione burocratica, rendendo difficile per molti beneficiarne. Il risultato è che molti commercianti si sono stati costretti a scegliere tra l’indebitarsi ulteriormente o chiudere i battenti.

La fuga verso il posto fisso e il lavoro nero

Di fronte a queste difficoltà, sempre più artigiani e commercianti decidono di abbandonare la propria attività per cercare rifugio in lavori percepiti come più sicuri; ed ecco che trovo il mio fidato “acquaiuolo” fare lo scaffalista al Conad, l’antennista di una vita fare l’autista per Amazon e il fiorista di sempre -autore di composizioni floreali incredibili- fare il guardiano notturno in un deposito alimentare. … lo stipendio a fine mese, tanto demonizzato negli anni del boom neoliberista, torna a essere l’obiettivo di chi ha perso fiducia nella possibilità di costruire qualcosa di proprio. Molti altri semplicemente hanno chiuso partita iva e si danno al lavoro nero, una soluzione disperata che garantisce un reddito immediato ma priva di qualsiasi tutela previdenziale e contributiva.

Questo esodo ha conseguenze drammatiche non solo per chi lo vive, ma per l’intera società. La perdita di competenze artigianali e di know-how rappresenta un danno irreparabile, che impoverisce il patrimonio culturale e produttivo del Paese. Inoltre, l’aumento del lavoro nero contribuisce a erodere ulteriormente la base fiscale, aggravando il circolo vizioso della crisi economica.

L’impatto sociale della desertificazione commerciale: la chiusura dei negozi non è solo un problema economico, è una ferita aperta nel tessuto sociale delle nostre comunità. I piccoli esercizi sono stati per decenni luoghi di aggregazione, spazi dove le persone si incontravano, si scambiavano informazioni, costruivano relazioni. La loro scomparsa lascia un vuoto che va oltre l’assenza di un servizio: priva i quartieri di un’identità, trasformandoli in luoghi anonimi e alienanti.

Il fenomeno è particolarmente evidente nelle periferie mentre i centri storici si votano ormai ai servizi, e le strade un tempo vive e animate si stanno trasformando in distese di serrande abbassate con cartelli, invecchiati da anni di pioggia e vento, di “Affittasi o Vendesi”… e quindi la desertificazione commerciale, ha un impatto diretto sulla sicurezza: le vie deserte diventano terreno fertile per il degrado e la criminalità, alimentando un senso di insicurezza che mina ulteriormente la coesione sociale.

Guardando al futuro, lo scenario non appare sereno.

Tutte le proiezioni dicono che le grandi catene e le piattaforme digitali continueranno a consolidare la loro posizione, accentuando le disuguaglianze e impoverendo ulteriormente il tessuto economico e sociale, tuttavia, non tutto è perduto. La crisi può rappresentare un’occasione per ripensare il modello economico e sociale italiano, riconoscendo il valore dei piccoli esercizi non solo come motore economico, ma come pilastro della coesione comunitaria. Questo richiede un cambio di paradigma, che metta al centro non solo la competitività, ma anche la sostenibilità e l’equità.

La chiusura dei piccoli negozi non è un destino segnato dal tempo, ma il risultato di scelte politiche ed economiche che possono essere corrette. È necessario un impegno congiunto, che coinvolga governo, istituzioni locali, associazioni di categoria e cittadini, per costruire un futuro dove il commercio locale possa tornare ad avere un ruolo sociale.

Cosa fare allora? Quello che periodicamente ripetono tutti in campagna elettorale: ridurre la pressione fiscale, semplificare la burocrazia, incentivare la digitalizzazione e sostenere il consumo locale non sono solo misure economiche, ma investimenti nel benessere collettivo.
Allo stesso tempo però, è fondamentale promuovere una cultura che valorizzi il commercio di prossimità, evitando di aprire Supermercati al centro della città e riconoscendo il ruolo centrale nella vita delle comunità; altrimenti si rischia non solo di perdere i nostri negozi, ma una parte essenziale della nostra identità italiana e meridionale.

Chi vuole strade cittadine fatte di battenti chiusi ma piene di friggitorie e sale scommesse?

 

 

Carlo De Sio

Laureato in Scienze Politiche ed Economiche, con Master in Psicologia sociale e P.R, ha lavorato nella Comunicazione d’impresa e nelle Relazioni Pubbliche per oltre 40 anni. Ha fatto parte dei direttivi di Organismi nazionali quali ACPI-Milano, FERPI-Milano e Confindustria. E’ iscritto all’Ordine dei Giornalisti dal 1999.
Fa parte di un gruppo di specialisti per la revisione di testi generati dall’I.A. e partecipa nel Deep Web a un gruppo di approfondimento che ha come focus notizie e valutazioni sulle crisi politiche in atto.

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