Le narrazioni sono in crisi. Viviamo in un’epoca in cui la tecnica ha preso il posto del contenuto: lo storytelling sostituisce il racconto, la narrazione si riduce ad ancella del capitalismo e l’informazione rimpiazza la notizia. Una sintesi che rende l’idea della critica alla società dei selfie e dei social, un mondo che pare privilegiare la forma alla sostanza.
Il filosofo coreano Byung-Chul Han, docente di Filosofia e Studi Culturali a Berlino, in un saggio pubblicato qualche mese fa da Einaudi (La crisi della narrazione. Informazione, politica e vita quotidiana, 2024) mette in luce le contraddizioni della contemporaneità, analizzando comportamenti che per noi sono all’ordine del giorno e che evidenziano la crisi esistenziale della modernità che – secondo l’autore – ha origine nella scissione tra vivere e raccontare.
L’informazione non sopravvive
all’attimo in cui viene annunciata
Mentre la vita dell’epoca pre-moderna era sostanzialmente legata al racconto, oggi prevale l’informazione sulla notizia e qualsiasi tipo di informazione viaggia principalmente attraverso i social. Proprio i social – rammenta l’autore del saggio – sono medium «informativi» e non «narrativi». Allo stesso modo, le numerose informazioni che ci arrivano costantemente sono ben diverse dalla notizia: l’informazione non sopravvive all’attimo in cui viene annunciata; la notizia, al contrario, ha un’estensione temporale perché porta con sé una storia. E se fosse proprio qui la risposta alla crisi del giornalismo?
Il problema della confusione
tra narrazione e pubblicità
L’analisi riguarda anche il mondo social: quante volte sentiamo parlare dell’importanza dello storytelling on line? Raccontare non significa postare contenuti sui social né vendere storie; la narrazione non è consumismo. Ne consegue che racconto e pubblicità non sono più distinguibili. È solo questo il problema? Non solo: secondo il filosofo coreano, oggi c’è la tendenza a occultare la mancanza di senso della vita con i post social. Le storie social – scrive – non sono altro che messa in mostra del sé; attività pubblicitarie; situazioni che portano sempre più all’isolamento dell’essere umano che, invece, si illude di restare in contatto. Le storie – dice l’autore – sono «informazioni agghindate con immagini che svaniscono dopo essere state velocemente notate».
Il fenomeno dei funeral selfie
come distrazione dalla morte
Dati di fatto che portano al delirio dei funeral selfie: una forma di distrazione dalla morte e dell’evidenza che anche la morte diventa l’occasione per strappare like. D’altronde, il filosofo non manca ricordare al lettore che la fame di selfie – definiti come «fotografie che durano un istante» – è sintomo di un vuoto interiore al cospetto del quale l’io produce in maniera permanente sé stesso.
I touch screen senza sguardo
semplice pascolo per occhi
La visione, per certi versi apocalittica, sfocia nella psicoanalisi con le osservazioni sui touch screen: Lacan direbbe – scrive Byung-Chul Han – che l’immagine del touch screen è «priva di sguardo» e che serve solo «come pascolo degli occhi».
Per chiudere con un’immagine positiva: l’autore, citando Benjamin, non manca di ricordare che il racconto è cura, ascolto, fiducia. E allora forse ci indica la via: la strada del racconto per arricchirci come comunità e per dimostrare che la crisi della narrazione non è un processo irreversibile.