La comunicazione interculturale è una questione di software mentale

La conoscenza della lingua accorcia di molto le distanze ma non basta, occorre anche modificare il sistema di rappresentazione della percezione e del pensiero perché ogni cultura parte da presupposti diversi, a volte lontanissimi

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Sono andato in Gran Bretagna per la prima volta 50 anni fa e ci sono stato diversi mesi; era l’epoca in cui Mary Quant aveva già fatto la rivoluzione della minigonna, i Beatles si erano sciolti e noi eravamo ormai tutti figli del ‘68, insomma stetti lì il tempo necessario per capire che con i nostri coetanei locali c’erano solo piccole differenze mentre c’era una enorme differenza culturale con la generazione precedente, quella ancorata all’Impero, che ancora ti ricordava di aver vinto la guerra e certa che the Old England fosse l’unica società civile, nonostante l’uso della moquette in bagno, la convinzione che il bidet fosse una futilità italiana e quel vezzo delle donne tra i 50 e i 70, segaligne come una Quaresima -qualcuna ancora con la nuca del collo rasata alla suffragette di inizio ‘900- di rifiutarsi di dare indicazioni o informazioni per strada a chi non parlava un inglese più che decente facendoti quell’intollerabile gesto con il dorso di una mano come a scacciare una mosca.

Era un mondo che sarebbe scomparso da lì a pochi anni, perché in fondo noi giovani eravamo già tutti Europei negli intenti e per cultura e poi venivamo tutti da democrazie convinte; era un piccolo problema culturale al confronto di quanto viviamo in questi tempi; la complicazione di oggi è soprattutto dovuta al fatto che l’Europa è meta di tanti che arrivano da Paesi nei quali il termine “Democrazia” è vuoto di contenuti, per cui il fenomeno del trasferimento massiccio di persone dal Sud del mondo ha introdotto sfide nella comunicazione interculturale oltre che nell’adeguamento alle norme di una società che, pur essendo libera e con Forze dell’Ordine non oppressive e autoritarie come da loro, ha comunque le sue regole.

Questo flusso migratorio porta con sé una diversità culturale, mettendo alla prova la capacità di individui e società di comprendere e comunicare efficacemente tra diverse prospettive. A fronte di questa trasformazione demografica, emergono problemi sociologici e psicologici che richiedono attenzione e riflessioni perché mentre le diversità arricchiscono le società, le barriere linguistiche, le differenze di valori e le sfide psicologiche rendono difficile la comprensione reciproca:

A livello sociologico, la crescente diversità culturale genera tensioni nella società di accoglienza, portando le differenze nei valori, nelle pratiche sociali e nelle aspettative a malintesi e conflitti, perché le comunità ospitanti potrebbero sperimentare sfide nell’adattamento a nuove dinamiche culturali, dovute spesso a comportamenti derivanti da religioni che di norma pervadono sia la vita sociale che quella privata nei Paesi di provenienza, mentre le persone migranti possono trovarsi di fronte a discriminazioni derivanti da resistenze all’integrazione e pregiudizi spesso immotivati. L’educazione sulla diversità culturale diviene quindi essenziale per promuovere la comprensione reciproca e prevenire la polarizzazione sociale.

A livello psicologico, le persone coinvolte in interazioni interculturali devono affrontare sfide legate alla gestione dello stress, all’adattamento e alla costruzione di relazioni significative. Il processo di integrazione può generare ansia e sentimenti di isolamento, richiedendo un sostegno psicologico adeguato. D’altra parte, le comunità ospitanti dovrebbero essere consapevoli delle esigenze psicologiche delle persone migranti, promuovendo un ambiente inclusivo che favorisca un adeguato benessere emotivo.

Ma al di là di qualsiasi implicazione sociale o personale, ciò di cui dobbiamo farcene tutti una ragione è che il pluralismo culturale è una realtà della nostra società. Il continuare a credere che la cultura sia ferma, monotematica, delimitata geograficamente, concernente specifici gruppi linguistici o -peggio- distinti territori nazionali, è superato nei fatti. Noi europei dovremmo esserci vaccinati contro il virus del nazionalismo con la II guerra mondiale prima e con la creazione dell’UE poi… fenomeni come la globalizzazione ci impongono di acquisire consapevolezza del fatto che esistono altre culture, miste, intrecciate tra di loro e/o sottoposte a reciproca influenza, che ora molto più che a fine del XX secolo pressano ai nostri confini anche a causa di palesi errori geopolitici dell’Occidente.

Il pluralismo culturale persisterà sempre e anche se alcune menti eccelse continuano ad indicare la Religione come ostacolo all’integrazione, l’esperienza della Francia ci insegna che in alcune aree di immigrati di terza generazione, ammesso li si possa ancora ritenere immigrati, pur avendo scuole francesi e come prima lingua il francese, continuano ad esistere residui di recriminazioni provenienti dalla prima immigrazione dei nonni… ciò porta a pensare che la terza generazione ha ancora ostacoli all’accesso all’istruzione, al lavoro, soffre dell’atteggiamento della popolazione locale, delle barriere culturali, dei pregiudizi sociali: da qui nascono le aggregazioni astiose dei Banlieue, perché la società ricevente non è riuscita a modificare il loro software mentale.

Quindi la comunicazione in campo interculturale, deve presentarsi come integrazione di attitudini generali e non come accrocchio di perizie specifiche; la conoscenza della lingua accorcia di molto le distanze ma non basta, occorre anche modificare il sistema di rappresentazione della percezione e del pensiero, il software mentale insomma, perché ogni cultura parte da presupposti diversi, a volte lontanissimi.

Il Software di Geert Hofstede

“[…] Tutto comincia con la consapevolezza: il riconoscere che ciascuno porta con sé un particolare software mentale che deriva dal modo in cui è cresciuto, e che coloro che sono cresciuti in altre condizioni hanno, per le stesse ottime ragioni, un diverso software mentale. […] Poi dovrebbe venire la conoscenza: se dobbiamo interagire con altre culture, dobbiamo imparare come sono queste culture, quali sono i loro simboli, i loro eroi, i loro riti […]. L’abilità di comunicare tra culture deriva dalla consapevolezza, dalla conoscenza e dall’esperienza personale […]”. (Geert Hofstede – 1991)

Fonte: C. Tincati – M. Dell’Acqua, Geomagazine LIVE

Carlo De Sio

Laurea in Scienze Politiche ed Economiche, Master in Psicologia sociale e P.R, ha lavorato nella Comunicazione d’impresa e nelle Relazioni Pubbliche per oltre 40 anni; dal 2015 è impegnato in attività di Lobbying indipendente in Italia e all’estero. Ha fatto parte dei direttivi di Organismi nazionali quali ACPI-Milano, FERPI-Milano e Confindustria. E’ iscritto all’Ordine dei Giornalisti dal 1999

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