La comparsa salvifica del “fanciullin cortese”

Tempo di lettura 7 minuti
Illustrazioni di Enzo Lauria

Il racconto è tratto dal volume di prossima pubblicazione: Domenico Notari, I borghi invisibili. Quattro leggende per quattro tradizioni ormai mute  (Officine Pindariche, 2023), prefazione di Giulio Leoni, illustrazioni di Enzo Lauria.

Era una notte di settembre del 1883. A Palazzo Petroni, a San Cipriano Picentino, tutti dormiva­no, tranne uno.

Un ospite in pigiama si aggirava claudicante e circospetto per le stanze del palazzo addormen­tato. Era un diciassettenne grassoccio e bruno, il viso quadrato, i capelli a spazzola, gli occhi da miope. Un’ombra di baffi gli scuriva il labbro superiore.

L’ospite attraversò il lungo corridoio ed entrò senza esitazione nello studio del cugino Paolo. Si avvicinò alla sua scrivania, ne aprì il tiretto centra­le e ne estrasse dal fondo il revolver modello ’74, che aveva già visto nelle mani del parente alcuni giorni prima.

Con l’arma in pugno, tornò nella sua stanza. Si chiuse a chiave. Poggiò il revolver sul letto. Si tol­se il pigiama e indossò il vestito della domenica che teneva appeso con cura nell’armadio. Cami­cia, cravatta, gilè, giacca…

Ogni cosa doveva essere impeccabile. Si guar­dò allo specchio: bottoni, gemelli, solino inamida­to, nodo alla cravatta, pince-nez, orologio d’oro con catena, scarpe ben lustrate…

Si sedette al piano del secretaire e vergò un bi­glietto con la stilografica d’argento che portava nel taschino. Una sola parola: «Perdonatemi»; in calce la sua firma: «Benedetto».

Poi, si stese sulla brandina e accostò la fredda canna del revolver alla tempia destra, il dito sul grilletto. Chiuse gli occhi…

«Tic!».

Il rumore di qualcosa che aveva colpito i vetri del balcone gli fece riaprire gli occhi.

Benedetto si sollevò sul cuscino e si guardò in­torno curioso e guardingo. Restò col fiato sospe­so, i sensi in allerta. Nulla: forse era frutto della sua fantasia.

Si rimise in posizione. La canna del revolver alla tempia, il dito nervoso sul grilletto, gli occhi di nuovo serrati…

«Tac!».

Stavolta il rumore era più forte e distinto: un sassolino contro i vetri.

Benedetto si alzò, l’arma ancora in pugno, e corse verso il balcone. Lo aprì e si affacciò sul­la strada.

Sotto di lui, un bambino di circa dieci anni, i capelli lunghi, un vestito di foggia strana, lo guar­dava sorridendo. «Scendete, messere!», gli disse con voce melodiosa e decisa.

Fu la sua voce? Il suo aspetto? La sua sicurez­za? Benedetto non avrebbe saputo dirlo.

Fatto sta che ubbidì. Come in trance infilò il revolver nella tasca della giacca e afferrò il basto­ne. Attraversò in silenzio il lungo corridoio, scese le scale, infilò l’andito e aprì l’imponente portone, ritrovandosi sul piazzale.

«È una notte troppo bella per restare in casa, non credete, messere?», disse il fanciullo, acco­gliendolo con un disarmante sorriso.

Benedetto fu colpito dalla sua bellezza e dai suoi modi eleganti. Era snello, bruno, il porta­mento fiero e aggraziato. I lunghi boccoli gli ri­cadevano morbidi sulle spalle. Doveva essere re­duce da qualche rappresentazione teatrale: ave­va l’aspetto di un paggio del Rinascimento; in­dossava un farsetto di seta e calzebrache di vel­luto bicolore.

«Venite, messere, voglio mostrarvi qualcosa».

Una forza misteriosa spinse Benedetto a seguir­lo, nonostante zoppicasse ancora.

Risalirono l’intero paese, inerpicandosi fino alla chiesa di Sant’Eustachio, alle pendici del Monte Cerreta.

Il fanciullo si sedette sul muro basso che deli­mitava il sagrato.

Il ragazzo lo imitò docile.

«Spesso vengo qui, e delle volte salgo sul cam­panile. Voi non ci venite mai, messere?».

«Da quando sono a San Cipriano, me ne sto rin­tanato nel palazzo», rispose ombroso Benedetto.

Ai loro piedi si stendeva, accarezzata dalla luna piena, come una scura trapunta, la valle del Picen­tino. Alla loro sinistra, pulsanti come lucciole, i casali di Giffoni: Prepezzano, Capitignano, Mal­che. Alla loro destra, le luci fioche di Filetta, Cam­pigliano, San Mango. E in fondo, scintillante, il mare di Salerno.

Dalla selva alle loro spalle, giungeva il fresco di una sorgente e un usignolo cantava al cielo e agli astri, ignorando l’ostinata orchestra dei grilli.

«Sentite che musica, messere! Da quando vivo qui, faccio il poeta», disse il bambino. «Sto ulti­mando il mio primo poemetto». E ne recitò com­pìto alcuni versi:

 

Già per li boschi i vaghi ucelli fànnosi

i dolci nidi, e d’alti monti cascano

le nevi, che pel sol tutte disfànnosi.

E par che i fiori per le valli nascano,

et ogni ramo abbia le foglia tenere,

e i puri agnelli per l’erbette pàscano…

 

Era la prima volta, dal giorno della tragedia, che Benedetto sorrideva: quel bambino lo mette­va di buonumore. Erano i suoi modi sussiegosi e garbati, da persona adulta e d’altri tempi. Bene­detto lo definì, dentro di sé, “il fanciullin cortese”.

«Allora, vi piacciono i miei versi?», chiese il poeta in erba, trepidante. Benedetto li aveva già ascoltati in altra circo­stanza, ma tacque. «Belli e preziosi», rispose trat­tenendosi dal ridere, per non offendere quel fan­ciullo garbato… e plagiario. «Avete già pensato a un titolo per il vostro poemetto?», chiese, resti­tuendogli comicamente il “voi”.

«Non ho trovato ancora quello giusto».

«Potreste chiamarlo… Arcadia», disse con un tono tra l’ossequioso e il canzonatorio il ragazzo.

«Bello!», esclamò serio il bambino, batten­do le mani.

«Purtroppo, ora che ci penso, non si può: l’ha già usato un altro poeta…», rise Benedetto.

«Peccato, mi piaceva tanto, cominciavo già ad affezionarmi».

Quel momento di buonumore si esaurì presto.

Restarono in silenzio, contemplando il panora­ma con sentimenti diversi, addirittura opposti.

«Vedete, messere, che armonia, che bellez­za!», disse infine il fanciullo, emergendo dai suoi pensieri e indicando, con un ampio gesto, la val­le e le colline.

«Da quando ho perso mio padre – sono sei anni ormai –, la natura è il mio unico rifugio, il mio mondo di idilliaca pace e dolcezza. Ve lo con­fesso, bramo quell’esistenza perduta di felicità, ce l’ho nel core come un ricordo lontano: quell’età aurea in cui trionfava l’amore, la poesia, il canto, in comunione perfetta con la natura…».

A questo punto, Benedetto sbottò rabbioso: «Ma quale rifugio! Quale consolazione! Per me la natura è solo matrigna! Più è bella e più è malvagia!

Quel giorno a Ischia i colori del mare erano sfa­villanti, la brezza carezzevole, le buganvillee pro­fumate. E poi, lo sterminio improvviso, l’ecatom­be, la strage!

In un giorno di bellezza perfetto, una tragedia è ancora più crudele…».

Il ragazzo si interruppe, tormentandosi le mani.

«Continuate, messere, ve ne prego», chiese il fanciullo.

Benedetto non aveva voglia di raccontare di nuovo la sua tragedia. Da quando era giunto a San Cipriano, si era fatto taciturno. Ma davanti a que­gli occhi limpidi e misteriosi, non seppe rifiutarsi.

«Mi sembra sia passato un secolo e un’altra vita…», continuò con voce rotta e turbata. «Mi trovavo da pochi giorni, con mio padre, mia ma­dre e mia sorella Maria, a Casamicciola, in una pensione chiamata Villa Verde, nell’alto della cit­tà, quando la sera del 29 luglio accadde il terribi­le tremoto.

Si era finito di pranzare, e stavamo raccolti tut­ti in una stanza che dava sulla terrazza: mio padre scriveva una lettera, io leggevo di fronte a lui, mia madre e mia sorella discorrevano in un angolo l’u­na accanto all’altra, quando un rombo si udì cupo e prolungato, e nell’attimo stesso l’edifizio si sgre­tolò su di noi. Vidi in un baleno mio padre levarsi in piedi e mia sorella gettarsi nelle braccia di mia madre; io istintivamente sbalzai sulla terrazza, che mi si aprì sotto i piedi, e perdetti ogni coscienza»[1].

Il fanciullin cortese lo ascoltava con occhi rapi­ti, ma nello stesso tempo – e questa era la stranez­za – sapienti.

«Rinvenni a notte alta, e mi trovai sepolto fino al collo, e sul mio capo scintillavano le stelle», continuò Benedetto, «vedevo intorno il terriccio giallo, e non riuscivo a raccapezzarmi su ciò che era accaduto, e mi pareva di sognare. Compresi dopo un poco, e restai calmo come accade nelle grandi disgrazie. Chiamai al soccorso per me e per mio padre, di cui ascoltavo la voce di poco lonta­no; malgrado ogni sforzo, non riuscii da me solo a districarmi. Fui cavato fuori da due soldati e ste­so su una barella verso mezzogiorno. Poco prima mio padre aveva cessato di parlare. Io mi ero rot­to il braccio destro nel gomito, e fratturato in più punti il femore destro…»[2].

A questo punto, il ragazzo si interruppe, scop­piando in singhiozzi.

«Ma risentivate poca o nulla sofferenza. Anzi, come una certa consolazione di avere, in quel di­sastro, anche voi ricevuto qualche danno», conti­nuò al suo posto il fanciullin cortese: «provavate come rimorso di esservi salvato solo fra i vostri, e l’idea di restar storpio o altrimenti offeso vi riusci­va indifferente, non è vero messere?»[3].

Benedetto lo guardò allibito.

«I successivi giorni sono stati i vostri più do­lorosi e cupi, nei quali assai volte la sera, posan­do la testa sul guanciale, avete fortemente brama­to di non svegliarvi al mattino, e vi è sorta persi­no la tentazione – già chiara a me, che da lontano vi guatavo – di porre fine alla vostra esistenza…»[4].

Benedetto balzò in piedi spaventato. «Ma chi sei?! Parla!».

«A suo tempo, messere», rispose serafico il fan­ciullin cortese. «Piuttosto, consegnatemi l’arma che nascondete nella tasca del giustacuore. Lassù…», disse puntando il dito al cielo, «non vogliono».

Benedetto sbiancò. E fece scivolare ubbidiente il revolver sul palmo della piccola mano.

In quell’istante il chiarore dell’alba li sorprese infreddoliti e assorti.

Sul viso del bambino passò come un’ombra fu­gace, sottraendogli ogni colore. «Ora dobbiamo andare, non c’è più tempo», disse lui. Negli occhi una stanchezza secolare.

Ridiscesero in silenzio il paese, ripercorrendo le stesse strade. Adesso Benedetto zoppicava vi­stosamente, e aveva i pugni affondati nelle tasche.

«Qui dobbiamo congedarci, messere», disse il fanciullo, quando furono sotto Palazzo Petroni «Aspetta! Dimmi prima chi sei!», chiese Bene­detto, scrutandolo con occhi febbrili.

«Mi chiamo Jacopo, Jacopo Sannazaro», rispo­se sorridendo il bambino. «E voi siete Benedetto Croce: mi sbaglio, messere?».

Il ragazzo tacque, pallido e sconvolto. E come un ubbriaco, infilò il “chiavino” nella toppa dell’imponente portone. Una parte dell’uscio si aprì cigolando.

Prima di varcarla, Benedetto si voltò indietro.

Ma il fanciullin cortese era già sparito.

[1] Il racconto di Benedetto su Casamicciola e sulla morte dei suoi familiari è tratto da B. Croce, Memorie della mia vita, Istituto Italiano per gli Studi Storici, Napoli 1992, con qualche lievissima modifica per ragioni narrative.

[2] Op. Cit. Idem.

[3] Op. Cit. Il testo, pur conservando la sostanza originaria, è stato adattato al contesto narrativo.

[4] Op. Cit. Idem.

Previous Story

La Campania è viva e si racconta

Next Story

Jack Kennedy, Vespa tra luci e ombre di un mito