Michail Bulgakov, nel suo racconto “Morfina”, descrive con crudezza il drammatico crescendo dell’assuefazione al farmaco, fino al precipizio in una inevitabile e insopprimibile dipendenza. Un climax narrativo scandito dall’aumento delle dosi giornaliere che introduce il lettore nel dramma del protagonista, il dottor Poljakov: il lento, incessante espandersi della sostanza all’interno dell’organismo trasforma la persona in null’altro che in un morfinomane che «Non vuole niente, non pensa a niente che non sia la morfina. La morfina!».
Bulgakov racconta sé stesso: aveva sperimentato sulla propria pelle la dipendenza dal farmaco, arrivando a iniettarselo due volte al giorno, ma il racconto è per lui uno strumento di trasformazione della sofferenza fisica e psichica in ispirazione, per esorcizzare definitivamente quell’esperienza. Il dolore diventa così per lui una sorta di magico tunnel che va attraversato, non evitato, raggiungendo finalmente la luce. Dalle ferite, reali o metaforiche, che l’artista, più o meno consapevolmente, vuole infliggere a sé stesso, sgorgano armonie perfette. Il racconto di Bulgakov è un affronto della stagione all’inferno vissuta dal protagonista, il dottor Poljakov, medico condotto nella Russia della Rivoluzione d’ottobre.
Qualche decennio dopo un’altra rivoluzione, questa volta “di massa”, fatta di musica e nuovi costumi, avrebbe attraversato l’Europa, in una stagione breve e travolgente: quella dei Beatles. L’ottimismo ideologico e culturale delle loro canzoni si sarebbe però ben presto dissolto, dopo che John Lennon, leader e fondatore della band, avrebbe deciso di intraprendere un diverso percorso artistico ed esistenziale.
Precipitato nel pozzo buio dell’eroina, Lennon si distacca dagli altri membri del gruppo e, in particolare, dal rassicurante Paul McCartney, pubblicando come solista un brano crudo e inquietante: “Cold Turkey”. Il titolo riflette il nome di un metodo molto duro e rapido di disintossicazione dalla droga: l’eroinomane viene legato a una sedia per trentasei ore, costretto a sopportare la crisi di astinenza, per una dolorosa ed efficace catarsi in una sorta di espiazione volta a purificare e liberare il corpo. Lennon, come Bulgakov, espone al pubblico il suo tormento, senza edulcorare nulla: l’ultima parte della canzone riproduce le grida della crisi d’astinenza, fino alla liberazione, raggiunta all’apice del dolore.
Non è un volo pindarico ad accomunare le opere dei due artisti: entrambe poco conosciute, sono manifestazioni della cognizione del dolore che s’innalza a monito e testimonianza, espressioni del profondo legame che, soprattutto nei momenti drammatici e dolorosi, s’instaura tra l’arte e la vita.
Sono, cioè, frutto dell’ispirazione che nasce dai tormenti personali, da abitudini stranianti che attraversa artisti e scrittori d’ogni tempo.
Quando un’opera, un romanzo, il testo di una canzone filtrano le esperienze private dei loro autori, rappresentano la conclusione di un viaggio negli inferi, di un cammino lastricato di demoni, esorcizzati proprio dalla loro rappresentazione artistica. Diventano così la testimonianza pubblica di un dramma artistico ed esistenziale e, allo stesso tempo, dell’energia creativa che, in una sorta di palingenesi, ne sublima e rigenera gli aspetti più dolorosi.