Il recupero della filosofia di Sini

Il filosofo in "Il metodo e la via" offre interessanti spunti di riflessione sul sapere

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Chi è l’uomo che sa? E che cosa sa l’uomo che sa? Mai più che adesso le domande sul sapere sono pressanti. Così che questo libro non capita a caso. Carlo Sini, Il metodo e la via, Mimesis Edizioni, pagg. 195.

Nel tentativo di rispondere o di dare qualche spunto di riflessione, o di avvicinarsi al problema del sapere Sini, uno dei maggiori filosofi italiani, parte da lontano. L’approccio è di carattere ermeneutico, prudente ma determinato e rigoroso. Porsi all’altezza del problema quando la crisi della ragione e della filosofia classica è agli estremi drammatici di un punto di non ritorno, impone un lavoro di comprensione e di scavo il cui tratto più critico è proprio l’inevitabile disorientamento di partenza. Che cos’è, allora, questo crollo? “Crisi” non è altro che un sigillo mal posto, dice Sini, dietro il quale si fanno passare stravaganze e invenzioni post-moderne, finzioni di pensiero e giochi di parole e tanto altro per i futili giochi della diffusione mediatica.

Carlo Sini si interroga sul concetto di sapere

Uno smarrimento iniziale è anche quell’affidarsi a nessuna metodologia né tantomeno a nessuna ipotizzata o supposta autorevolezza. Pensare senza presupposti non basta, dice Sini, (è esso stesso un’illusione). Ciò vuol dire pensare il problema di una nuova filosofia così come di un nuovo metodo. Questo significa che il metodo non è mai qualcosa di neutrale, un puro strumento o mezzo. Ogni metodo incarna un punto di vista, una scelta definita. Quindi, ogni metodo che lo sappia o no, contiene già una scelta di sapere. Un sapere di cui abbiamo perso le tracce e al quale affidiamo troppo ciecamente noi stessi. Intimando assiduamente una quantità enorme di risposte e dando per assodate e stabilite quelle che sono non risposte o risposte taciute o schivate senza mezzi termini dalla piccola filosofia epistemologica palesemente infondata, e che, come una scialuppa di salvataggio, fa acqua da tutte le parti. Poi gli uomini che vi si erano rifugiati affondano fatalmente nell’oceano, accanto al grande bastimento della metafisica che già da qualche tempo è stato sommerso dalle acque. E, allora, dovremmo stringere questo lutto alla leggera? Come se fosse finito lo zucchero?

Sini, dunque, tenta un recupero della filosofia. Della sua indubbia facoltà che è l’inattuabilità, l’impossibilità, l’impraticabilità di non poter essere tale senza i sui fondamenti o i suoi metodi. E di essere essa stessa il cardine cui deve ruotare inevitabilmente il pensiero. È all’interno della filosofia che ogni realtà è “dedotta” e “mediata”, a cominciare dalla parzialità del sapere delle scienze. Per far ciò, ed è la tesi di queste lezioni tenute da Sini nel biennio 1985/86 all’università degli studi di Milano, la filosofia non può far a meno di un metodo. Metodo e filosofia, dice Sini, devono essere inscindibili.

Ma che cos’è il metodo? Qui inizia l’appassionata esegesi del filosofo. Un pensiero speculativo potente. Che solo la sua maestria, la sua sottigliezza di grande filosofo riesce a rendere in maniera così irreprensibile, per quanto il suo sforzo possa apparire un problema o qualcosa di poco producente. Eppure, qui c’è in gioco la nostra cultura, sostiene Sini. O che cosa sarebbe, allora, questa sapienza filosofica se, nella convinzione della sua futilità o vanità, l’abbiamo tenuta in vita per tanti secoli? E chi, dice Sini, se non Parmenide, che fa emergere per la prima volta in termini di una radicalità originaria assoluta il problema di che cosa sia il nostro sapere e di conseguenza la sua compenetrazione di metodo e pensiero. E che prenderà, appunto, il nome di filosofia. Parmenide, sostiene Sini, non è il filosofo dell’essere, ma della “odòs”, di una via della sapienza che è allo stesso tempo una via di parola “vera” (alethès, non più nascosta, ma manifesta al sophòs). È quella parola che è, senza mai contraddirsi con non è. Il sapiente è chi parlando afferma la verità in giudizi affermativi e incontrovertibili. Come si osserva è il logòs che fonda l’essere e non viceversa.

Parmenide diventa così un definitivo spartiacque tra la sapienza arcaica e la nuova cultura che attraverso il méthodos (la via), il logos (la parola) e i semata (i segni) aprirà la strada a quel sapere “logico” che si affermerà via via nella dialettica di Platone, nella sofistica di Gorgia e Protagora, per approdare attraverso Aristotele a un’idea di sapienza che non è più quella iniziatica dei misteri originari, ma una sapienza strettamente razionale e non più sacrale. Essere sapienti, ormai, significa avere una competenza di parola, di discorso, esercitare il giudizio, la confutazione e la dimostrazione anche per assurdo. Parmenide, dunque, è la figura iniziante di quel sapere nel quale noi ci troviamo coinvolti e “decisi”. È lui a fissare la nuova via del pensiero. Se il pensare è quella scelta (krisis) logica che il filosofo di Elea stabilisce, allora il pensare non può essere altro che la ricerca di quella verità (Alètheia) che non può esistere fuori dalla via del pensiero stesso. In altre parole, senza quel metodo che è la filosofia stessa. Il pensiero è carne e forma di se stesso.

Chi sa, ci dice Sini, è il filosofo che non rinuncia alla sua discendenza apollinea, accanto al recupero del suo poter essere celebrante dionisiaco. Non rinuncia cioè alla parola che interpreta come unica possibile via di pensiero. In questo senso egli è anche profeta. Chi dice la parola non afferma la verità ancora oscura del mondo, ma rende se stessa nell’unico modo possibile del proprio ritorno. Proprio là, dove Parmenide l’aveva lasciata. Tra il giorno e la notte. Rammentando che siamo noi a nominare le cose. Uno sforzo titanico quello di Sini. Senza dubbio una grande lezione su che cosa sia il pensare filosofico. Ciò ci rende, sicuramente, tutti più consapevoli e forti.

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