I Sei personaggi dalla scena allo schermo

La celebre opera pirandelliana dalle origini alle prime apparizioni, tra varianti e risate (nel testo), nella poetica dell'autore e oltre il suo mondo, dalla metamorfosi al metateatro e nella interpretazione di altri creatori di storie teatrali: un universo composito e dinamico che vive ancora nelle riscritture letterarie e nel cinema e forse punta al metaverso

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Abstract

Una messa in scena dei Sei personaggi presso il Teatro Bellini di Napoli

Il lavoro realizzato nel fascicolo collettaneo del 2022, I Sei personaggi di Pirandello dalla scena allo schermo, della rivista «Sinestesie», diretta da Carlo Santoli, da me introdotto e curato, segue la storia avventurosa dei celebri sei Personaggi, dalle dichiarazioni progettuali alla princeps e alle sue varianti, dai rapporti intratestuali con i personaggi delle opere narrative e dalle loro metamorfosi al metateatro e alla dimensione dell’oltre, declinato in diversa accezione semantica: “oltre” l’Autore, i Sei vengono ripresi da altri autori, messi in scena da nuovi creatori, fino a diventare quasi irriconoscibili, e proiettati in un ulteriore spazio artistico che sembra negarne l’autonomia, pur rimanendo paradossalmente vitalissimi.

 

Introduzione origini e prime apparizioni

 Scrivendo da Roma al figlio Stefano il 23 luglio 1917, Pirandello confidava di avere «la testa piena di nuove cose! Tante novelle… E una stranezza così triste, così triste: Sei personaggi in cerca d’autore – romanzo da fare. Forse tu intendi. Sei personaggi, presi in un dramma terribile, che mi vengono appresso, per esser composti in un romanzo, un’ossessione, e io che non voglio saperne, e io che dico loro che è inutile e che non m’importa di loro e che non m’importa più nulla, e loro che mi mostrano tutte le loro piaghe e io che li caccio via… – e così alla fine il romanzo da fare verrà fuori tutto». Un’opera non destinata unicamente al teatro, tant’è che nel 1930 Pirandello scriverà con lo sceneggiatore viennese Adolf Lantz una «Novella cinematografica» dei Sei personaggi, che risente dell’influsso di Reinhardt e doveva tradursi in realizzazione filmica.

Anna Maria Andreoli

Un dato fondamentale su cui ha richiamato l’attenzione Annamaria Andreoli è la correlazione fra la fortissima innovatività dell’opera e le convulsioni postbelliche. L’opera, infatti, va in scena il 9 maggio 1921 «alla vigilia delle elezioni politiche (15 maggio), nell’anno in cui crolla la Banca italiana di sconto e vengono fondati sia il partito comunista che il partito fascista», dopo l’occupazione delle fabbriche. Fu un clamoroso debutto, seguito dal lusinghiero successo milanese al Teatro Manzoni il 27 settembre e dalle memorabili rappresentazioni all’estero, da New York, nel 1922, con la regia di Brock Pemberton a Broadway, e da Parigi, l’anno dopo, con la regia di Georges Pitoëff, che fece scendere i sei personaggi da un montacarichi, a Berlino, nel 1924, con la direzione di Max Reinhardt, che rese scenograficamente le tre dimensioni del testo: la speculare, l’onirico-metafisica, la metateatrale.

 nel testo fra varianti e risate

Aldo Maria Morace

I Sei personaggi finirono per diventare, quindi, un’opera in progress tra ripensamenti e varianti sparse e in parte inesplorate, rinvenute nei copioni di scena. Per farsi un’idea immediata delle revisioni pirandelliane basti confrontare le modifiche apportate direttamente dall’autore sul testo originario del 1921 a partire dall’edizione del 1923, con ulteriori innovazioni strutturali in quella del 1925, corredata dalla celebre prefazione dell’autore. Di queste varianti, comprese quelle più limitate nei testi del 1927 e del 1933 (il definitivo della Mondadori, primo volume della «trilogia del teatro nel teatro»), organizza uno studio capillare Aldo Maria Morace, secondo un apparato di ricerca rigoroso volto a far emergere i raffronti più significativi. Senza entrare nel merito delle varianti estemporanee, soprattutto autografe, compito anche dell’Edizione Nazionale dell’Opera Omnia, seguendo un percorso evolutivo in correlazione con l’iter correttorio dalla prima alle successive stampe, singolarmente ne varietur, sua edizione di riferimento è il testo dei “Meridiani” curato da Alessandro d’Amico, che ha messo filologicamente a confronto la princeps del 1921 con la stampa del 1933. Secondo Morace l’illuminotecnica è «il dato nuovo della didascalica e dell’incidenza esercitata sull’autore dalle esperienze maturate nel corso delle rappresentazioni, soprattutto estere», senza escludere che anche l’incontro con Marta Abba, abbia potuto contribuire a una migliore definizione della figura della Figliastra, il suo essere baricentro della sequenza finale del dramma con la sua triplice, stridula risata.

Beatrice Alfonzetti

Una risata – osserva Beatrice Alfonzetti – che è «puro suono, diremmo spirito che stride come un’eco conturbante e maligna a ricordare il sesso a pagamento del marciapiedi che come essere in un girone infernale cifrerà il suo destino per sempre. Delle figure femminili, come la Figliastra, la Alfonzetti, «tra fine e finali», disegna una vera e propria mappa (ci sono la Donna uccisa, Ilse, Teresa): tutte hanno in comune un «riso stridulo, usato per colpire l’altro, l’uomo fantoccio, spesso debole e meschino».

Gli strumenti del tragico: i Sei personaggi con altri personaggi

Rino Caputo

La dimensione dei Sei personaggi in cerca d’autore è anche una dimensione “altra”: «Pirandello “gioca”, da vero modernista italiano, sul rapporto intrinseco tra verità e illusione – osserva Rino Caputo -, dove l’illusione è nella realtà e la realtà è illusione». Si spiega allora perché uno dei primi spettatori, Antonio Gramsci, redattore delle cronache teatrali nell’edizione torinese dell’«Avanti!», recensendo Il piacere dell’onestà, intuì subito nel teatro pirandelliano «tante bombe a mano che scoppiano nei cervelli degli spettatori e producono crolli di banalità, rovine di sentimenti, di pensiero», per la capacità di fare «balenare delle immagini di vita che escono fuori dagli schemi soliti della tradizione, e che però non possono iniziare una nuova tradizione, non possono essere imitate, non possono determinare il cliché di moda». La visione gramsciana risentiva certamente dei cambiamenti del tempo storico. Quando Georges Pitoëff, infatti, mise in scena a Parigi i Sei personaggi, nella traduzione di Benjamin Crémieux, li fece balzare vivi sul palcoscenico dall’alto con un ascensore: un segnale che si era ormai nell’era della tecnologia meccanica, del macchinismo del primo Novecento, anche per Pirandello. Con la sua mente artistica, incline a sperimentare più generi letterari (i suoi personaggi entrano ed escono come in una serie di stanze), nonostante il contraddittorio atteggiamento verso il cinema, sarà sempre più interessato a transcodifiche filmiche delle sue opere letterarie. E Caputo trova un omaggio alla sua opzione cinematografica, un riferimento esplicito ai Sei personaggi nell’ultima scena del film di Ferzan Özpetek, Magnifica presenza (2012), girata nel Teatro Valle di Roma, dove il 9 maggio del 1921 avvenne la prima e molto contrastata rappresentazione dell’opera.

Angelo Fàvaro

Ed è proprio Angelo Fàvaro a partire da un problema centrale: tutto il dramma dei Sei personaggi potrebbe essere interpretato come violazione e capovolgimento delle dinamiche e delle strutture della tragedia classica in una prassi del dubbio e della sospensione. Anzitutto, c’è un mito d’origine nell’esperienza dei personaggi; il mito per antonomasia dove si consuma la tragedia: la famiglia. La riconciliazione impossibile tra tutti i suoi componenti non giunge mai a una verità valida per ciascuno di loro, condivisa e condivisibile; potranno solo continuare a coltivare il sentimento di cui sono emblema. Pirandello si serve degli strumenti del tragico, ma ne opera una attenta violazione e un preciso capovolgimento, che non alludono né inducono al comico, ma preparano e anticipano il teatro dell’assurdo, attraverso la persistenza del dubbio sugli eventi, sui personaggi, su quel che accade in scena. In tal modo, genera un cortocircuito fra la tragedia classica e il moderno dramma borghese, una nuova consapevolezza del tragico, fondata sull’autocoscienza dei personaggi, senza ormai più alcuna catarsi, in quanto la nuova conflittualità è nel relativismo del punto di vista.

Antonio Sichera

Per Antonio Sichera, oltre a Delitto e castigo di Dostoevskij, nel suo lungo percorso, Pirandello tenne presente anche Edipo, soprattutto in rapporto al corpo, perché la scoperta freudiana, nel campo della teoria evolutiva, è quella di aver legato al corpo e ai suoi cambiamenti lo sviluppo infantile; ma si tratta del corpo posto in relazione con l’altro, con la madre, anzitutto, e quindi di un corpo che muta in un rapporto costitutivo con l’ambiente e col corpo altrui. Nei Sei personaggi si trova una visione del corpo inquietante, in quanto vi appare come spinta a un incontrollato possesso, a un’aggressività competitiva, tesa all’annientamento di un altro corpo, come emerge nella drammatica colluttazione tra il Padre e il Figlio, che il genitore vorrebbe a tutti i costi costringere a prender parte al dramma. Si possono però trovare anche segnali alternativi a questa semantica inquietante del corpo: basti pensare al tenero abbraccio che la Figliastra riserva alla Bambina, e basti pensare al silenzio commosso, generato da un pathos eminentemente corporeo, che avvolge tutti i partecipanti all’azione drammatica davanti ai singhiozzi della Madre al cospetto del dolore della figlia. «Un corpo vivente e non un corpo macchina; un corpo dai sensi aperti e non un corpo chiuso nella propria smania di possesso; un corpo-per-l’altro e non un corpo-contro-l’altro, la sua realtà, la sua vita».

Marco Manotta

Cominciano, a questo punto, le diverse fasi dell’“avventura” dei sei Personaggi: il loro incontro con altri personaggi, le loro interne metamorfosi, la ricerca di altri autori e di altri creatori, di ulteriori spazi dell’immaginario artistico, in cui apparire anche trasformati, fin quasi a essere irriconoscibili. Il transitare di un personaggio a un altro, ma in un’opera non pirandelliana, si pone già per Marco Manotta, per cui in cerca d’autore non sono i personaggi, ma le marionette. In Il fu Mattia Pascal, nella rappresentazione della tragedia di Oreste in un teatro di burattini, bloccata l’azione, di fronte al personaggio irresoluto, si palesano i fantasmi del palcoscenico. Anselmo Paleari, annunziando a Mattia-Adriano Meis la rappresentazione dell’Elettra d’après Sophocle, osserva che se, mentre sta per compiersi la vendetta per morte del padre, si facesse uno strappo nel cielo di carta del teatrino, Oreste rimarrebbe terribilmente sconcertato da quel buco nel cielo, perché sentirebbe ancora gl’impulsi della vendetta, vorrebbe seguirli, ma gli occhi, sul punto, gli andrebbero lì a quello strappo e si sentirebbe cader le braccia, per cui Oreste diventerebbe Amleto.

Se Oreste è sullo sfondo, tetragono e rigido, come nella versione sofoclea, o sconcertato nell’irresoluzione, determinata dal dubbio radicale come nella supposizione del Paleari per lo spettacolo delle marionette, una figura femminile dalla coeva tragedia di Hofmannsthal si protende nell’opera di Pirandello: «Elettra, stranamente trascurata nella riduzione scenica per teatro di marionette, compare sulla ribalta, ormai perfettamente consapevole del ruolo di personaggio, indossando l’abito di scena di una giovane donna, orfana di padre, animata da un sentimento di incoercibile rancore nei confronti del patrigno»: Elettra, dunque, si rivela nella Figliastra dei Sei personaggi; e, non a caso, l’autore nella didascalia della pièce ha scritto che la maschera della «vendetta», sentimento radicale della sorella di Oreste, è «per la Figliastra».

Graziella Corsinovi

Per Graziella Corsinovi, la genesi del personaggio pirandelliano matura lungo percorsi multipli, comprendenti testi di letteratura, filosofia, psicologia e, anche attraverso Luigi Capuana, esperimenti e indagini sullo spiritismo, la metapsichica, la teosofia. Tuttavia, l’invenzione del personaggio come entità autonoma, più vero anche se meno reale dell’essere umano, che rivendica la sua indipendenza, non appartiene al solo Pirandello, perché negli stessi anni delle riflessioni metaletterarie pirandelliane, uno dei maggiori scrittori spagnoli, Miguel de Unamuno, giungeva alle stesse conclusioni sulla tipologia del personaggio come ente di finzione. Infatti, in un articolo pubblicato nel 1923 su «La Nacion» di Buenos Aires, attribuendone la causa   allo Zeitgeist, tenne a sottolineare le sorprendenti affinità tra la sua visione del mondo, dell’arte e del personaggio e quella di Pirandello, da lui scoperto l’anno prima, in occasione della traduzione italiana del suo romanzo, Niebla del 1914. Secondo, quindi, la Corsinovi, i due autori, peraltro quasi coetanei, avvertendo contemporaneamente lo sgretolarsi del principio di realtà e la perdita di credibilità delle scienze esatte, tra fine Ottocento e inizio Novecento, furono accomunati da nuova dimensione conoscitiva, etica ed estetica.  Straordinaria è l’affinità dei personaggi pirandelliani con quelli di Unamuno e, in particolare, con il protagonista di Niebla Augusto Pérez, che, nella riedizione del 1935, protesta con il suo autore per la sorte che gli è stata imposta, anche se vanno tenute presenti sia la particolare curvatura religiosa unamuniana, sia le altre fonti alla base della creazione del personaggio pirandelliano, tra cui, fondamentali, l’irrazionalismo vitalistico  di Gabriel  Séailles  con il suo Essai sur le génie dans l’art, per il quale la creatura  nata dalla fantasia è prolungamento, sul  piano spirituale, dell’attività  della natura,  espressione di quel  libero movimento vitale  che percorre  tutto l’universo,  e la psicologia sperimentale di Alfred Binet, con il saggio Les altérations  de  la personnalité:  autori, sottolinea la Corsinovi, «letteralmente saccheggiati» da Pirandello. A queste fonti si aggiungano le dottrine teosofiche, diffuse da Leadbeater e Bésant in Le plan astral e in Les formes-pensées che accoglie e riunisce anche il brivido «oltrano»  delle esperienze  del paranormale (si ricordi l’elenco dei libri di Anselmo Paleari nel capitolo decimo del Fu Mattia Pascal), e le osservazioni che già Luigi Capuana aveva fatto, soprattutto in La crisi del romanzo del 1897 e in Gli ismi contemporanei dell’anno dopo, sull’affinità tra allucinazione artistica e allucinazione spiritica, che costituiscono un  precedente imprescindibile  per Pirandello.

Dalla metamorfosi al metateatro

Convinta giustamente che i vari generi frequentati da Pirandello hanno germi nascosti e forze interne che si sono manifestati in altre forme, Monica Venturini indaga, con rilievi tratti dal sistema variantistico, alcuni snodi tematico-formali comuni, presenti in particolare nelle novelle Scialle nero e Il Pipistrello. In Scialle nero sono presenti alcuni tra i più noti temi pirandelliani, soprattutto il doppio e una figura femminile nel ruolo di protagonista, come Eleonora Bandi, che anticipa tratti connotanti la Madre dei Sei personaggi, la condizione sofferente di Mater dolorosa,  variamente declinata secondo richiami simbolico-numerologici. Quanto alla  novella Il Pipistrello, pubblicata per la prima volta su «La Lettura», nel gennaio 1920, l’irrompere imprevisto di un pipistrello sulla scena determina inaspettatamente il successo dello spettacolo, dopo averlo in un primo momento interrotto; allo stesso modo, i Sei personaggi fanno la loro dirompente entrata in scena, interrompendo le prove di Il giuoco delle parti, per cui la contiguità tematica tra i due testi risulta evidente. Tratto comune tra novella e pièce, oltre il confine dei generi, è l’epilogo interrotto, che rappresenta anche la cifra del contrasto irrisolto tra arte e vita: un impossibile finale, l’emblema di un’epoca.

“oltre” l’autore, con altri autori

Paolo Puppa

La vitalità dei sei Personaggi, non più in cerca di un solo autore (Pirandello?), ma di altri autori, aprendo sviluppi e scenari nuovi, non trova soste e continua nel monologo del Figlio, nella sua «versione» dei fatti, che gli affida un altro autore, Paolo Puppa. «Che succede se il Figlio si mette a parlare, a dire la sua, invece di rifiutarsi di collaborare coi suoi esagitati parenti? Cosa, se all’improvviso depone la sua ritrosia a intervenire nell’esibizionismo collettivo della famiglia, o meglio della coppia disturbata, Padre e Figliastra, ossessionati a riproporre la scena madre, a ricostruire il fattaccio?». Ecco la sua domanda, per cui immagina «che avanzasse sul proscenio e prendesse finalmente la parola», con l’invito ad ascoltarlo, perché forse «se lo merita». La confessione punta, fin dall’inizio, la figura del Padre col suo “vizietto” di seguire a scuola la Figliastra, quando era ancora bambina, con le sue treccine e le mutandine che le uscivano dalla gonna; poi la sua confessione si sposta sulla Figliastra, la sorellastra, che continuamente provocava il Padre, nel desiderio ambiguamente morboso di condividere con lui la stessa camera. E, proseguendo nella confessione, il Figlio, ormai in dubbio sulla propria identità, apre un inquietante scenario, in cui tutta la famiglia appare disturbata dalle pulsioni incestuose. Puppa, quindi, fa portare al Figlio, «banale guardone», le estreme conseguenze di segnali forse impliciti nella pièce o elucubrati dal pirandellismo di cui lettori e critici spesso non sono esenti, ma a cui, come al Personaggio monologante, sorge alla fine un dubbio: come ha fatto la Madre a sbucare all’improvviso e fermare proprio a tempo, a interrompere Padre e Figliastra prima che consumassero il “fattaccio”? Con un’ipotesi: «nella loro versione ufficiale le cose si sarebbero svolte in questo modo. Strano, molto strano».

Anche con Lorenzo Resio i Sei personaggi vanno oltre; il testo pirandelliano esce da sé stesso e i Personaggi continuano la loro inesauribile odissea andando alla ricerca di altri autori. Questa volta, incontrano Edoardo Sanguineti, che sposta decisamente la prospettiva drammaturgica dal “teatro nel teatro” al “teatro dell’incesto”, ritenuto, rispetto al primo, il vero tema, con Sei personaggi. com (2001), un vero e proprio esempio di «travestimento» con labili riferimenti alla vicenda originaria. Resio ritiene fondamentale porre l’accento sui «meccanismi del riuso delle fonti» e sull’«utilizzo di determinate suggestioni iconografiche» nell’opera sanguinetiana. La messa in scena della pièce da parte di Andrea Liberovici rivelava, inoltre, una sperimentazione acustica che prevedeva anche l’uso di suoni elettronici o sintetici. Ritornando al tema centrale, l’incesto, sembra che Pirandello abbia usato tutte le cautele per renderlo elusivo, per Resio, pertanto, «quella che Sanguineti vorrebbe portare sulla scena potrebbe essere una nevrosi nata dall’atto mancato, poi spostata sui personaggi, sulle marionette; un saggio, magari, sull’autocensura pirandelliana come esempio della censura borghese». In questo travestimento nel travestimento diventa, quindi, centrale l’incesto, che è, insieme con l’uccisione del padre, il tabù che per Freud fonda il funzionamento delle stesse società umane.

“Oltre” gli autori con altri creatori

Lorenzo Mango

Le ultime “avventure” hanno al centro un segnale di passaggio espresso dall’oltre: ripresa e omaggio all’espressione chiave dell’universo pirandelliano. Su questa lunghezza d’onda si è mossa la realizzazione di Memé Perlini, analizzata da Lorenzo Mango, basata, nel fervore del clima avanguardistico del momento, sulla volontà di muoversi al di fuori dagli schemi e di istaurare con la tradizione drammaturgica un rapporto del tutto nuovo e imprevisto: con il titolo, non certo non provocatorio, Pirandello chi?, debuttò al Teatro Beat 72 di Roma, il 3 gennaio del 1973, il suo spettacolo. Nell’ambito della concezione del Teatro-immagine, non intesa come pura riduzione dell’azione scenica su di un piano visivo, ma come modo per organizzare programmaticamente dal punto di vista estetico le nuove emergenze linguistiche e supporto, quindi, dell’immaginario, va collocata la messa in scena di Perlini, per comprenderne i meccanismi del funzionamento drammaturgico, tenuto anche conto dello spazio in cui si svolse, la “cantina”, tale da motivare alcune scelte registiche. Lo spettacolo era, infatti, completamente immerso nel buio, al cui interno lo spettatore si sentiva calato fino a perdere il senso dell’orientamento, mentre la luce estraeva dal buio l’azione, dall’oscurità generatrice dove emergevano e si reimmergevano i personaggi, non lasciandola del tutto evidente, ma «sporcandola d’ombra, presentandola con un che d’indefinito e d’inspiegato che rimanda al mondo dell’immaginario». Per il regista, si trattava di cogliere i personaggi in una situazione di “soglia” tra l’apparire e lo sparire, come un’epifania che si accende e si spegne perché il personaggio è drammaturgicamente rifiutato; ma, questo gioco di soglia, avverte Mango, e in questo consiste la soluzione realmente innovativa, «pur se di matrice pirandelliana, assume nelle mani di Perlini una configurazione del tutto propria, indipendente e non illustrativa rispetto al testo».

Conseguenza di questa impostazione, di una regia non interpretativa, tale da proporsi anche in una chiave nuova, perfino estrema e radicale del testo, è che le parole di Pirandello sono presenti in minima parte e per schegge affioranti dal vuoto occulto dell’oscurità, per frammenti giustapposti lungo l’azione scenica, non secondo una diacronia narrativa, ma attraverso un montaggio di taglio cinematografico. Si tratta di un visionarismo onirico, in cui le facce/maschere dei Personaggi si presentano come trasformazioni pittoriche, che evocano una matrice clownesca, come significanti che rifuggono a ogni significazione di natura simbolica, in cui il testo pirandelliano interviene «non come chiave o sintesi narrativa, ma come incastro con un discorso poetico». Per Mango, pertanto, si può parlare di una duplice presenza dei Sei personaggi in Pirandello chi?: una materiale e una metaforica. Riguardo alla prima, «Perlini utilizza il testo come cosa scenica, ne seleziona alcuni frammenti e li immette nello spettacolo alla stessa stregua di come vi immette un’immagine, una luce. I frammenti, inoltre, non sono attribuiti a personaggi specifici, non sono il detto dei personaggi scenici, sono puri enunciati verbali in cui le parole contano come cosa a sé, si definiscono quali personaggi immateriali al fianco di quelli materiali dell’immagine». Per la presenza metaforica: «mentre Pirandello scrive la storia dei suoi personaggi attraverso una frammentazione narrativa, Perlini scrive la manifestazione delle sue ombre attraverso la frammentazione della luce».

Pasquale De Cristofaro

Il regista, quindi, crea un’equivalenza visiva dello spirito inquieto del testo; un ruolo determinante, che, con l’esplosione delle avanguardie europee primonovecentesche, acquista un valore in chiave antinaturalistica, come afferma Pasquale De Cristofaro: il palcoscenico, infatti, diventa il luogo d’elezione per l’affermazione di questo nuovo personaggio carismatico che, in molti casi, assurge a vero demiurgo dello spettacolo. Eliminando la piatta riproduzione fotografica di salotti e camere da letto, si ritorna allo spazio vuoto, nudo, delle grandi epoche teatrali; ed è così anche per i Sei personaggi che rientrano legittimamente nelle nuove proposte tese a cambiare in maniera radicale il teatro nel vecchio continente.  Per De Cristofaro, nella forma primordiale dello spazio vuoto si può accogliere l’inatteso, assistere alla visione di una realtà desiderata, proprio perché diventa il luogo dove sono possibili le suggestioni oniriche e i deliri dell’allucinazione: entrare in scena significa essere desiderati, pensati, evocati; morire per rinascere grazie al grembo materno della fantasia dello scrittore.

Da uomo di teatro, quale egli è, prova ad assecondare alcune sue «congetture» sulla scena nuda, che possono venire incontro al suo discorso, a partire da Il Gabbiano di Cechov (famosissima la messa in scena di Stanislavskij), proprio perché l’autore, stanco di un décor naturalistico tutto copia «simil-vero» del mondo, opta per uno spazio svuotato da inutili orpelli, in un momento in cui l’arte non può che essere l’arte della domanda disperata, dell’interrogativo continuo sull’uomo e sul mondo, come in I quaderni di Malte Laurids Brigge di Rainer Maria Rilke, dove sarà proprio in un teatro antico vuoto e visitato quando non c’è spettacolo a rivelare, al protagonista, l’epifania del Dio. Si giunge così, attraverso queste «congetture», ad Antonin Artaud, acutissimo recensore dello spettacolo dei «Sei personaggi», messo in scena a Parigi da Georges Pitoëff, la cui visionarietà può essere paragonata all’apparizione dei Personaggi.

Anna Maria Sapienza

Con un’impostazione registica manifestamente “post-pirandelliana”, dal momento che rinuncia alle consuete convenzioni rappresentative, lontano sia dallo sperimentalismo avanguardistico, sia dalla tradizione registica  Visconti-Strehler, ma anche dalla recitazione sincopata tipica dello stile di Luca Ronconi, nell’analisi critica di Annamaria Sapienza, è il teatro di Carlo Cecchi, il cui tormentato e contraddittorio rapporto con Pirandello implica una presa di distanza dalle usurate chiavi di lettura della sua drammaturgia con la conseguente rottura di ogni cristallizzazione spettacolare e una deviazione rappresentativa in direzione  antinaturalistica. In tal senso, nelle quattro stagioni consecutive dal 2002 al 2006, i Sei Personaggi, da lui messi in scena, acquistano quella fisionomia imprevedibile e flessibile che caratterizza la concezione teatrale di questo attore/regista. Cecchi tende a esasperare l’inconciliabile rapporto tra opera d’arte e rappresentazione teatrale (com’è noto, vera e propria ossessione pirandelliana), «sfidando il limite tra irrappresentabilità e gioco scenico, spingendosi fino allo smascheramento di tutti i meccanismi previsti da una materia oggetto di un numero smoderato di analisi critiche e riletture sceniche».

Per Isabella Innamorati, Luca Ronconi con il suo spettacolo, In cerca d’autore. Studio sui ‘Sei personaggi’, presentato a Spoleto, nel Teatrino delle Sei, il 7 luglio 2012, rovescia, invece, solo la “prospettiva” di quella Work in progress che è ormai diventata la celebre pièce pirandelliana. La messa in scena ronconiana ha, tuttavia, un impatto innovativo nei confronti delle rappresentazioni tradizionali: il regista stesso aveva spesso dichiarato di sentire insopportabili i manierismi pseudoraziocinanti di un’opera tante volte rivisitata, le cui battute, soprattutto quelle afferenti al logoro pirandellismo del dilemma realtà/finzione e alla metateatralità più prevedibile e trita, erano generalmente risapute a memoria.

   Se, quindi, nell’originaria concezione pirandelliana l’azione si snodava sul palcoscenico e nella sala teatrale, nello spettacolo di Ronconi si concentra tutta in un’unica stanza delimitata da pareti bianche, fortemente illuminate, contro cui si stagliano i corpi degli attori, proiezioni della mente di Pirandello: è questa la «stanza della tortura», metafora inquietante della mente creatrice dell’autore, in cui i Personaggi appaiono come creature tenebrose, provenienti da un altrove ignoto.  Utilizzando l’edizione definitiva del 1933, il regista attua un radicale rovesciamento di prospettiva rispetto agli allestimenti tradizionali, intervenendo sul testo con tagli e riduzione sia delle battute del Capocomico e degli attori, sia dei riferimenti ai meccanismi scenotecnici usati al tempo della composizione della pièce, sia della prova del Giuoco delle parti, per dilatare i tempi di svolgimento del dramma dei sei Personaggi, che appaiono dentro l’impianto metafisicizzato come ombre inquietanti.

Giungendo nella nostra immediata contemporaneità, per Florinda Nardi risulta ormai impensabile poter tenere fuori dallo spartito di un teatro sempre più pluricodificato la linea dell’apporto tecnologico, capace di incidere fortemente, sia per l’illuminotecnica, sia anche per la tecnologia del suono (se si vuole light e sound design), sull’armonia e la connotazione dell’intero spettacolo. Un ultimo esempio, in questa direzione, può essere la versione dei Sei Personaggi per la regia di Luca De Fusco, al Teatro Argentina di Roma, nel febbraio del 2018, – scene e costumi Marta Crisolini Malatesta, luci Gigi Saccomandi, musiche Ran Bagno, video Alessandro Papa, movimenti coreografici Alessandra Panzavolta – che vuole essere uno spettacolo capace di andare oltre il codice teatrale: «Un duplice spettacolo, teatrale e cinematografico, in cui le figure reali e visibili ad occhio nudo sono riprese da telecamere e proiettate sulla scenografia come giganti onirici. L’intuizione si adatta in modo speciale all’opera di Luigi Pirandello, massima riflessione sulla natura stessa del teatro nella drammaturgia del Novecento. Infatti, i personaggi sembrano provenire dal mondo del grande schermo e chiedere di far sfociare il cinema nel teatro».

“Oltre” lo spazio teatrale: il cinema

Andrea Aveto

Anche le cronache giornalistiche, pur partendo dall’opera teatrale, ne sono “oltre”: i sei Personaggi ricompaiono non in palcoscenico, ma di nuovo sulla carta stampata e per giunta attraverso la mediazione di ancora altri autori. Andrea Aveto, infatti, ricostruisce, attraverso le recensioni apparse sui principali quotidiani cittadini dell’epoca («Caffaro», «Il Cittadino», «Corriere mercantile», «Il Lavoro», «Il Secolo XIX»), il contrastato esito delle due rappresentazioni (12-13 dicembre 1921) dei Sei personaggi effettuate dalla compagnia Niccodemi nel Politeama Margherita di Genova.  Da Mario Maria Martini a  Mario Gianturco, da Corrado Marchi  a Tullio Carpi, fino a Carlo Panseri, Adriano Tilgher e Renato Simoni, penne prestigiose intervenivano sulla ricezione e interpretazione di un’opera contradditoria e ancora troppo complessa per la maggior parte del pubblico del tempo. Mentre non più di un solo genere, ma di altri generi (romanzo, novella) e del cinema, sono alla ricerca i sei Personaggi, non più del palcoscenico, ma dello schermo, come nella ricostruzione di Silvia Acocella. Di qui il confronto tra la Prefazione ai Sei personaggi, scritta nel 1925, e il Prologo del racconto cinematografico del 1926, in cui a rivelare le potenzialità fisiche e metafisiche dei Personaggi sarà la luce, che si manifesta elemento fondamentale della loro reale costituzione e conferma, allo stesso tempo, che la pièce più famosa di Pirandello è un’opera in movimento, metamorfica, soggetta alle tensioni della sua stessa struttura, mentre la trilogia di cui è parte, «teatro nel, sul e contro il teatro», diventa il contrappeso, in quanto dimensione materica dei fantasmi prodotti dal suo immaginario, del regime totalitario fascista nella fase di consolidamento del suo potere. Sono proprio le luci artificiali dei primi decenni del Novecento, soprattutto quelle elettriche, a sottrarre profondità e a rendere troppo visibili gli aspetti esteriori, fino ad appiattirli in una chiarezza perturbante: un effetto, questo, che sembra intensificare il processo di moderna allegorizzazione che caratterizza la prosa pirandelliana. Se poi si tratta di portare all’esterno, in un campo concreto e visibile, la realtà fantastica dei Personaggi, di rendere manifeste le visioni segrete della mente, di superare la materialità della scena, per renderla conforme e aderente alla dinamica dell’immaginazione, niente meglio delle immagini cinematografiche può rappresentare il sogno, il ricordo, l’allucinazione, la follia, lo sdoppiamento della personalità. Nasce così in Pirandello la fiducia nelle facoltà espressive della settima arte, capace, più completamente di qualsiasi altro mezzo d’espressione artistica, di offrire «la visione del pensiero». I sei personaggi torneranno a materializzarsi, quindi, «più vivi dei vivi», nel progetto di un film, acquistando una consistenza più congeniale alla loro natura. Con il Prologo del racconto cinematografico, scritto nel 1926 da Pirandello, suggestionato dal cinema espressionista, soprattutto dalla componente onirica dei film di Murnau, il loro processo di trasformazione giungerà alla conclusione: erano nati, molto tempo prima, come ombre vaghe e impercettibili; diventeranno, immaginati sullo schermo, del tutto manifesti perché plasmati di luce. L’Acocella, a questo punto, ne segue e analizza tutti i passaggi, fin dall’incipit che annuncia il potere creativo del lumen opacum, della luce che non cancella le ombre, anzi le allunga: «quello che nel testo della commedia era scritto e raccontato diventa qui pura visione. E i fantasmi della fantasia ne acquistano in immediatezza; non solo, ma appaiono anche più indipendenti. Compare addirittura, in questa transcodificazione, uno stadio intermedio che non esisteva nella concezione iniziale della storia: delineate da lampi di luce, prima dei personaggi veri e propri, si intravedono le persone, sciolte da ogni legame con l’autore». Ed è questo il punto di arrivo del viaggio dei Personaggi. E dopo il cinema, dove si dirigeranno? La risposta è forse nell’intelligenza artificiale, nel metaverso, dove verosimilmente i Sei approderanno, realizzando nuove possibilità di vita e di espressione.

 

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