Il Sud annaspa, per il Pnrr occorrono i fatti

I timori di Antonio Lombardi, neo vicepresidente nazionale Cepi: i nuovi ingenti finanziamenti sarebbero un'opportunità, se si trasformassero in investimenti concreti e cantieri. Non è stato così in passato, non è così oggi, e c'è il timore che non sarà così nei prossimi anni se non si mette mano a tutti quei fattori congestionanti e penalizzanti per la nostra economia. Nel Mezzogiorno più che altrove.

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Rischia di tornare sull’orlo del precipizio, l’edilizia, dopo la boccata di ossigeno dei bonus per le ristrutturazioni e la riqualificazione energetica; ed i problemi potrebbero investire proprio il Mezzogiorno.

Tanti i fattori che alimentano nuove preoccupazioni – dal protrarsi del conflitto bellico e relative conseguenze sui mercati globali, ai rincari delle materie prime – ma quelli più gravi sono legati a doppio filo a scelte politiche che non possono esser più tralasciate o differite.

Antonio Lombardi

Antonio Lombardi è il presidente nazionale di Federcepicostruzioni e, da qualche settimana, vicepresidente nazionale Cepi: perché i timori di una nuova crisi dell’edilizia e perché questa chiamata alla responsabilità della politica? Cosa può essere fatto e non si fa?

Sono diversi i problemi sul tappeto legati a doppio filo con sempre più improcrastinabili decisioni politiche: uno su tutti, abbiamo migliaia di imprese dell’edilizia ormai al tracollo perché non riescono a cedere i crediti del Superbonus. Si parla continuamente di nuove soluzioni, ma le imprese continuano a rimanere con cassetti fiscali pieni e casse vuote. È sempre più urgente un intervento del Governo per salvare queste aziende e migliaia di posti di lavoro.

Cosa dovrebbe e potrebbe fare il Governo?

Affrontare quella che ormai è una vera e propria emergenza, con decisioni consequenziali. Lo abbiamo detto subito: occorre un intervento della Cassa Depositi e Prestiti per rilevare questi crediti.

Il Pnrr riporta al centro del dibattito politico (e non solo) il rilancio del Mezzogiorno: si sta seguendo la strada giusta? Gli effetti saranno quelli sperati?

Per il momento non possiamo che esprimere preoccupazione per le scadenze che non si riescono a rispettare. E non possiamo non stigmatizzare le responsabilità anche delle amministrazioni locali nei ritardi. Anche in questo caso la responsabilità della politica sta nel conoscere i fattori e le problematiche che causano i ritardi, ma non intervenire con scelte efficaci e coraggiose, per eliminarle.

Cosa significa?

Storicamente il nostro Paese non è capace di utilizzare le risorse che riceve da Bruxelles. A fine anno, rischiamo di perdere una cospicua fetta dei Fondi di Coesione relativi al settennio 2014-2020, perché non siamo riusciti a sostenere negli anni scorsi, in media, investimenti per 9 miliardi di euro l’anno. Può mai sorprendere che oggi non si riescano ad investire importi molti più consistenti con il Pnrr? Eppure, problemi e difficoltà sono riconducibili in buona parte alle medesime problematiche. Con il Pnrr entro il 2026 dobbiamo spendere mediamente 42 miliardi di euro all’anno per poter realizzare tutti i progetti previsti dal piano. Senza mutare l’attuale stato delle cose, raggiungere questo obbiettivo è oggettivamente impossibile. Aggiungo: dei Fondi di Coesione, 64,8 miliardi di euro messi a disposizione dell’Italia nel periodo 2014-2020, di cui 17 di cofinanziamento nazionale – poco meno della metà (29,8) sono ancora da spendere entro il 31 dicembre. La parte non utilizzata dovrà essere restituita. Tirando due somme, tocca investire quasi 72 miliardi entro la fine di quest’anno e 42 miliardi l’anno fino al 2026.

Mi pare una straordinaria opportunità per il Paese e per il Mezzogiorno.

Lo sarebbe, se questi finanziamenti si trasformassero in investimenti concreti e cantieri. Non è stato così in passato, non è così oggi, ed è forte il timore che non sarà così nei prossimi anni se non si mette mano a tutti quei fattori congestionanti e penalizzanti per la nostra economia. Nel Mezzogiorno più che altrove.

E quali sono, questi fattori penalizzanti soprattutto per il Sud?

Lo dicono le rilevazioni e i dati della Banca d’Italia. Oggi in Italia per realizzare un’opera pubblica occorrono in media 610 giorni, quasi due anni. E i ritardi maggiori si registrano al Sud (685 giorni), quasi totalmente imputabili ad amministrazioni locali (655 giorni contro i 445 del Centro-nord). La fase di aggiudicazione al Sud dura quasi sei mesi (172 giorni) a fronte degli appena 88 giorni del Centro-Nord. In questa fase procedurale, il divario è evidente sia per i lavori gestiti dal Governo centrale (88 giorni al centro-Nord e 138 al Sud) sia per quelli delle amministrazioni locali (102 al Nord, 198 nel Mezzogiorno). La durata media per la realizzazione di opere del valore compreso tra 150.000 e un milione di euro, è di 445 giorni al Centro-Nord e di ben 625 al sud (180 giorni in più:
sei mesi). Un differenziale ancor più evidente per le opere superiori alla soglia comunitaria €.5.382.000), in cui la durata media di realizzazione – dato eloquente sullo stato dell’arte in Italia – è di 3.085 giorni, più di 8 anni e mezzo.

Quali le cause e quali i possibili interventi?

Le ragioni di questo divario territoriale risiedono nella disorganizzazione e nella scarsa preparazione delle amministrazioni locali, con uffici sguarniti in uomini e mezzi. Se non si mette mano seriamente a queste problematiche, alla riduzione di queste tempistiche, ed alle cause chiare ed evidenti che le determinano, rimarremo sempre a tirar le somme di ritardi, opportunità perdute, risorse inutilizzate, finanziamenti europei da restituire.

Quali priorità, per ridurre queste tempistiche?

Riforme vere e concrete che puntino anche a cancellare sovrapposizioni di competenze, pareri incomprensibili, duplicazioni e complicazioni procedurali, orpelli farraginosi (e onerosi). Ma lo diciamo con chiarezza: occorre anche, e qui occorre indubbiamente coraggio politiche, sopprimere enti inutili e incomprensibili. La vera emergenza è questa.

Federcepicostruzioni non ha condiviso lo stop al Superbonus e gli studi che evidenziavano un eccessivo onere per il bilancio dello Stato. Come, a suo avviso, questa misura poteva e può essere resa più sostenibile?

Una riproposizione del Superbonus, adeguatamente sostenuta da risorse europee, è oggettivamente imprescindibile, ed il Governo se ne sta rendendo conto, alla luce della direttiva europea sulle cosiddette “case green”, e alla necessità di contenere la nostra bolletta energetica, su cui oggi l’edilizia privata incide per il 40%. Occorre riqualificare energeticamente un patrimonio edilizia vecchio, insicuro, ed energivoro. È improponibile farlo senza adeguate ed efficaci forme di sostegno come il Superbonus. Il 53,7% delle abitazioni italiane ha più di 50 anni (risulta costruito prima del 1970); un ulteriore 31% è stato edificato nel ventennio successivo (1971-1990) ed il 7,4% nel periodo 1991-2000. Meno dell’8% è stato edificato nell’ultimo ventennio. Alla luce di tale situazione, risulta evidente la necessità di intervenire con lavori di ristrutturazione e di efficientamento energetico in non meno 9,7 milioni di edifici in Italia, per un investimento complessivo (la stima è dell’Ufficio Studi Federcepicostruzioni su dati Istat-Enea) di circa mille miliardi di euro.

Ma come finanziare una riproposizione del Superbonus?

Guardando anche a strumenti e forme di finanziamento coraggiosi, moderni, innovativi, di grande appetibilità sul mercato dei titoli. C’è in tutto il mondo una crescente attenzione ai temi legati alla sostenibilità e al risparmio energetico. I green bond appaiono sempre di più tra gli strumenti di finanziamento favoriti dai vari players. L’UE non a caso ha finanziato proprio con green bond circa
il 30% del programma Next Generation EU. Il Canada a marzo 2022 ha emesso il primo green bond sovrano per finanziare la transizione ecologica, offrendo agli investitori il controvalore di 5 miliardi di dollari canadesi (3,6 miliardi di euro). Anche i BTP Green dell’Italia sono un ottimo esempio, per finanziare investimenti statali con un impatto ambientale positivo, al fine di supportare la transizione ecologica del Paese. Si guardi con coraggio a queste forme innovative di raccolta fondi per riqualificare energeticamente il nostro patrimonio immobiliare anche pubblico, remunerando titoli e capitale con investimenti mirati, specifici programmi europei, ma anche i risparmi sulla bolletta energetica. Ma ci vuole, però, decisionismo, coraggio, concretezza.

Che, pare di leggere tra le righe, ancora mancano nelle scelte e nelle decisioni politiche, ad ogni livello istituzionale.

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