“Notre héritage n’est précedé d’aucun testament” (“La nostra eredità non è preceduta da alcun testamento”) è forse il più strano degli sconcertanti aforismi in cui René Char, scrittore e poeta francese, condensò il significato che quattro anni di Resistenza avevano assunto per un’intera generazione europea di scrittori e uomini di lettere. Alla sconfitta della Francia (…) gli uomini di cultura, mai coinvolti prima d’allora nella vita pubblica della Terza Repubblica, erano stati risucchiati dalla politica come per l’attrazione di un vuoto pneumatico; senza preavviso, e forse contro ogni loro tendenza cosciente, volenti o nolenti avevano dovuto costituire una sfera della vita pubblica nella quale (senza gli accessori dell’ufficialità e lontano dagli occhi di amici e nemici) si trattavano, a parole o nei fatti, tutti gli affari di rilievo della vita nazionale.
Non durò a lungo. Dopo pochissimi anni furono liberati dall’ufficio che in origine avevano considerato un fardello e respinti in quella che ora riconoscevano come l’irrilevanza banale della loro vita privata, per ritrovarsi ancora una volta divisi dal “mondo reale” da una épaisseur triste, dalla malinconica opacità di una vita privata imperniata esclusivamente su sé stessa. E se si rifiutavano di “tornare alle (loro) origini, alla (loro) vita infinitamente meschina”, l’unica soluzione era il ritorno all’antica, insulsa gara tra ideologie in contrasto, che dopo la sconfitta del comune nemico aveva ripreso a occupare l’arena politica dividendo gli ex compagni d’armi in innumerevoli cricche (neppure in vere e proprie fazioni), impegnate nelle polemiche e negli intrighi interminabili di una guerra di carta. Si era avverato ciò che Char aveva previsto e chiaramente predetto mentre ancora durava la lotta autentica: “Se sopravvivrò, so di dover rompere con l’aroma di questi anni essenziali, di dover tacitamente respingere (non reprimere) il mio tesoro”. Il tesoro era perduto.
Di quale tesoro si trattava? Secondo quanto loro stessi pensavano, doveva consistere quasi di due parti strettamente connesse: colui che “si univa alla Resistenza, si trovava” cessava d’essere “impegnato nella ricerca (di sé stesso) senza alcuna tecnica, preda della più cruda insoddisfazione”, non temeva più d’essere “un attore critico e sospettoso nella recita della vita”, sentiva di potersi permettere di “andare in giro nudo”. Per la prima volta nella vita, in questa loro nudità, spogliata di tutte le maschere (quelle imposte dalla società ai propri membri e quelle elaborate dall’individuo stesso, con le proprie reazioni psicologiche contro la società) erano stati visitati da un’apparizione della libertà: non per essersi mossi contro la tirannia e contro mali ancora peggiori (ciascun soldato degli eserciti alleati non era stato da meno), ma per essersi fatti “sfidanti”, per aver preso l’iniziativa e quindi, senza saperlo e neppure rendersene conto, aver cominciato a creare tra loro quello spazio pubblico nel quale la libertà era potuta apparire. “A tutti i pasti consumati assieme, invitiamo la libertà. Il posto rimane vuoto ma il piatto resta in tavola”.
Gli uomini della Resistenza europea non erano né i primi né gli ultimi a perdere il loro tesoro. Dall’estate del 1776 a Filadelfia e l’estate del 1789 a Parigi fino all’autunno del 1956 a Budapest, la storia delle rivoluzioni, chiave politica per decifrare la storia più recondita dell’epoca moderna, potrebbe essere narrata come la favola di un tesoro antichissimo, che appare all’improvviso nelle circostanze più diverse, e quindi scompare di nuovo celandosi sotto i più svariati e misteriosi travestimenti, come una fata morgana. E molte valide ragioni farebbero concludere che il tesoro non sia mai stato una realtà, bensì soltanto un miraggio: la più valida è che non ha mai avuto un nome.
Può forse ancora esistere qualcosa (non nello spazio esterno, ma nel mondo e tra le cose umane) che non abbia nome? Liocorni e fate, si direbbe, hanno maggior concretezza che non il tesoro perduto delle rivoluzioni.
[Hannah Arendt, Tra passato e futuro]