Donato Ferdori, nato a Bologna nel 1970, è dottore di ricerca in Filosofia (Università di Bologna) e insegna nei licei di Roma. Ha realizzato la monografia L’autonomia come principio spirituale (Luciano, Napoli, 2012) accolta nella collana Cristalli diretta da Giuseppe Cantillo e Rossella Bonito Oliva. Per Mimesis ha pubblicato tre volumi dedicati ai rapporti tra filosofia e popular music. Ha elaborato interpretazioni del pensiero di Kant, Kierkegaard, Benjamin e MacIntyre, ospitate da riviste scientifiche come il Giornale critico della filosofia italiana e da opere collettanee come gli Atti dell’XI Congresso kantiano internazionale. La sua prima raccolta poetica, Pirucche (poesie 1992-2014), è uscita nel 2015 per Campanotto.
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Stiamo imparando a morire anche noi
del ’70: è una cosa tutta nuova,
come un’alba in ascensore, un sapore
da dire ai robot e agli animali.
Non esistono i vecchi, gli anziani
nel senso che noi diamo a questi termini:
la lotta con il corpo per esprimere
la vita è compimento, non declino.
Mangeremo l’orrore, lo faremo
coi nostri denti da latte e del giudizio
sincero, e poi davvero marciranno
i mostri che legavano la voce.
Possibile che senta così poco?
Dov’è l’apocalisse che ci spetta?
Avrà forse i colori degli Ottanta
proiettati nel 2030:
quel buio patinato, quel rossetto
esistenziale, il verde di quel sole.
I nostri film da fare ci sospingono,
non moriremo senza aver girato
le scene che ci inventeremo lì
per lì come se fossero già scritte:
quelle per cui saremo odiati e amati.
Questo almeno spero: avere il tempo
di dare il mio colore e diventare
trasparente e potente come il mare.
Voglio titoli nuovi, senza storia:
titoli che si inventino la trama
di un sogno vago più della memoria.
Il corpo è il mago, ce li detterà.
Sul silenzio
Quando uno è solo è pieno di parole;
in tre si scherza, un po’ ci si vergogna
d’essere seri: è cosa da bambini,
si pensa, e il silenzio se ne va.
In cinque ci si ruba
la voce per saltar fuori dal nulla
ed essere applauditi – nelle pause
tra un furto e l’altro parlano gli enormi
spettri cui non abbiamo dato casa
in noi, per debolezza.
Silenti si può esser solo in due:
io raddoppiato da quel criminale
sacro del mio fantasma, o io e te.
Capodanno
Lo stomaco ti duole: è già mattina
e ancora non hai capito
quello che questa notte era venuta
a dirti; ti rigiri,
ricordi le parole che hai scambiato
nell’anno ancora vecchio con Lucia,
amica di altri tempi per telefono,
mentre la notte era già inflazionata
di fuochi e di petardi.
La fitta torna insieme alle parole
maldestre che cercavi di abbozzare
spiegando come mai
ti eri dimenticato il compleanno
dell’unico nipote e ai soli zii
avevi regalato le matite.
L’anno che è appena nato è vuoto
d’amore, la saliva è senza uscita.
Il corpo è condannato al vestimento,
ma sai che devi andare almeno là,
dove c’è gente e forse ancora un senso
di vita, un’aria di comunità.
Riunione inaugurale: apre una donna
segnata dall’età ma sorridente
con gli occhi, con le labbra e con qualcosa
in più che non riesco a nominare.
Risuona la preghiera sempre nuova,
il mantra quotidiano è nelle scale
linde e deserte mentre suona all’uscio
un’altra praticante, un’altra amica
ben poco conosciuta eppure intima,
e si collega al canto.
Poi prende la parola Caterina
e la parola inciampa nella gioia
di piangere per quell’assiduità,
per la naturalezza di quel meeting
mattutino. E io penso che è sacra
non la preghiera in quanto tale o i libri
da cui leggiamo massime consunte
eppure sempre belle a riascoltarsi,
ma proprio quel sorriso, quella voce
rotta, quel gruppo di persone sveglie
e strette in un legame
franco come la luce, come il mare.
E anch’io piango di gioia, di dolore,
di tutta quella colpa che attanaglia
le viscere e le tiene prigioniere,
di quell’io così fragile a toccarsi,
che qui non ha barriere, né bisogno
di parlare, di farsi riconoscere
dagli altri. Qui c’è amore.
Ce n’è da dare agli angoli di strada,
nei luoghi di lavoro, nei momenti
in cui si chiude il mondo e la memoria.
*
Io non avevo un io,
e il mio non-io aveva bisogno
di te mamma, della tua schiena.
Veniamo tutti e due da un buco
dove il naso era incollato, gli occhi spenti,
e il mare entrava e usciva rosso
e quieto dalla pelle silenziosa.
Poi mi hai lasciato solo, per paura
di sbagliare, di essere sbagliata e ho respirato
il vetro del soffitto con le mani.
Per crescere ho mangiato le formiche
trasparenti, ti ho delusa, ti ho cercata
nelle gonne, nelle lingue delle altre.
Ma l’angolo del ciliegio non esiste,
non ci sono le rose intorno al prato,
le carte Mira Lanza che accrescono il futuro,
il muschio inumidito e la raccolta (la strada per quel posto non finisce)
di tappi di bottiglia (è il paradiso che scivola, l’inferno).
Non c’è vita sul pianeta
che io cerco, morte
dopo morte in ogni mano,
in ogni nome.
*
Negli ospedali che diventano
case, nelle stanchezze
subliminali che senti con la pelle
sottile e t’incazzi;
nelle case che sono ospedali
dolcissimi e fuori dagli incubi c’è
sempre il tuo corpo sottile
e se urlo mi dici dormendo “amore che c’è”
e ridi se sbatto la testa e mi perdoni.
Nell’ospedale del mondo mi porti
a passeggio, è vitale
come un bambino che non sa che fare,
che s’incazza e poi sorride ai salici,
ai cagnoni. E nei tuoi occhi
c’è tutta questa festa inarrestabile
a cui ogni viltà si dovrà arrendere.
È ancora luna piena, rosa-luna
e ci fermiamo ancora a respirare
la fatica, la libertà
nella campagna strana.
(da Fenicità, Transeuropa, 2024).