Ivan Pozzoni, non riesco ad essere davvero un vuoto a rendere

Il poeta, che ha introdotto in Italia la materia della Law and Literature, è autore di molte raccolte di versi tradotte in varie lingue, dal francese all'inglese, allo spagnolo, allo sloveno, all'uzbeko, kirghizo, indiano hurdu, indiano hindi, bengali

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Ivan Pozzoni è nato a Monza nel 1976. Ha introdotto in Italia la materia della Law and Literature. Ha diffuso saggi su filosofi italiani e su etica e teoria del diritto del mondo antico; ha collaborato con con numerose riviste italiane e internazionali. Tra 2007 e 2018 sono uscite varie sue raccolte di versi: Underground e Riserva Indiana, con A&B Editrice, Versi IntroversiMostriGalata morenteCarmina non dant damenScarti di magazzinoQui gli austriaci sono più severi dei Borboni, Cherchez la troika e La malattia invettiva con Limina Mentis, Lame da rasoi, con Joker, Il Guastatore, con Cleup, Patroclo non deve morire, con deComporre Edizioni. Viene inserito nell’Atlante dei poeti italiani contemporanei dell’Università di Bologna ed è inserito molteplici volte nella maggiore rivista internazionale di letteratura, Gradiva. I suoi versi sono tradotti in francese, inglese,  spagnolo,  macedone, greco, albanese, serbo, bosniaco, croato, sloveno, rumeno, bulgaro, russo, azero, uzbeko, kirghizo, indiano hurdu, indiano hindi, bengali. Nel 2024, dopo sei anni di ritiro totale allo studio accademico, rientra nel mondo artistico italiano e fonda il collettivo NSEAE (Nuova socio/etno/antropologia estetica).

 

La mia depressione è chimica

Ci sono giornate che non ti alzeresti dal letto

non so se è questione di chimica o se son solo matto,

non vedi l’ombra di un futuro, no future, punkabbestia senza cane,

ti senti Mansell, in Williams, abbandonato a una chicane.

 

Non senti niente da dire, non trovi tasti da battere

la noia ti strangola dentro da non riuscire neanche a combattere

l’idea di te, inutile, l’idea di te, insensato, idee senza senso

non resta che stringere i denti e attendere i frutti di un altro scompenso.

 

Ci dicono che non funzionino noradrenalina e serotonina

pareggiano imbottendoti i sensi di dopamina e fluoxetina,

il tuo io, schiacciato tra ansia e euforia, è un puck sparato sul ghiaccio

e recita joie de vivre senza copione, farneticando a braccio.

 

La disoccupazione è al 15%, c’è coda sul reddito di cittadinanza,

i ratings italiani barcollano in mano agli squali dell’alta finanza,

nei grafici del nostro bilancio mi manca l’ascissa:

o sono alienato o io sono sano e l’Italia è depressa.

 

Fuori dal coro

Non riesco ad essere davvero un vuoto a rendere

durante la mia crisi occipitale

non è mio il mestiere dello stendere

un corpo in linea orizzontale.

 

Eppure sono orizzontale, e cerco l’orizzonte ad ogni momento della giornata

incapace di reggermi in piedi senza incassare

l’orizzonte, l’Occidente, stretto nel suo sepolcro come Farinata

l’orizzonte dei camions che trasportano bare.

 

Scoppi di pianti, scoppi di risa, e foglie d’alloro

centimetri dall’esser morto, centimetri dall’esser d’oro

mi affaccio dal balcone della letteratura occidentale

e i critici, confusi, mi bollano con un Tso da ricovero in ospedale.

 

Io non mi volevo buttare dal balcone

volevo semplicemente sincerarmi di non esser rimasto solo

con un diavolo che mi attizza col forcone

depressione, asfissiante come un grumo di bolo,

allettante come i rimedi rinchiusi in un flacone,

io ignorante, destinato a cantar fuori dal coro.

 

Vodka e benzodiazepine

Mi trovo tutti i giorni a visitare le notizie online dei suicidi,

non ho mai avuto timore di trovare il mio nome

magari accompagnato al sostantivo poeta come le cariatidi

con tracce fresche di strame e di bitume.

 

Io sono un immortale, ho assecondato le fila dei Trecento,

alle Termopili, morire di una inutile morte eroica,

meglio la morte che un sopportabile addomesticamento,

chiudetemi, con molto Scotch, in un’un urna fatta di maiolica.

 

La vodka sta finendo e stanno finendo questi versi

devo decidere bene come utilizzare i differenti mezzi

usare l’alcool a finalità didattica nel dipingere nuovi universi

o con le benzodiazepine mettendo fine ai miei numerosi schizzi.

 

La malattia

Ciao, sono Gaia, sono degente dell’ospedale

Gaslini, di Genova, dove ci rincorre il mare,

ho tredici anni e sono vittima di un brutto male

la depressione grave, la malattia del malaffare.

 

A tredici anni non si deve esser sempre in lacrime,

forse mai, ma mi è sfuggita la voglia di vivere

il dolore come uno strascichio di sirime,

mi è sfuggita la voglia di non essere cadavere.

 

Camminavamo, tranquilli io e il sorvegliante

la depressione è stata più veloce dell’istante,

ho corso fino a che mi si spezzasse il cuore

la mia noradrenalina come decodificatore;

mi sono attaccata alla ringhiera dell’ospedale,

dieci metri di volo senza nemmeno pensare di morire,

a tredici anni si hanno le ali, non hanno funzionato per volare

hanno funzionato per raccogliere il mio sangue senza farlo colare.

 

Abbiamo tredici e quarantacinque anni e un brutto male

la depressione grave, la malattia del malaffare

un morbo anomalo, dalla medicina poco considerato

finché non diagnosticano un corpo morto sul selciato.

 

Il mestiere del poeta

Ho scoperto perché a molti non piacciono le mie poesie

è difficile che parli di vita, e di altre fantasticherie,

mi interessano la politica, il sociale, la comune,

e – come direbbe Checco Zalone – sono cose che non fregano a nissune.

 

Sulla mia tomba scriverò «[…] è nato per scriver versi […]»

così avrò la certezza che andranno tutti persi.

E ci metterò un calice di amaro Montenegro,

così, perduti sì, ma me ne frego.

 

 

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