Cimitero Mediterraneo, è strage continua

Più di 40mila decessi negli ultimi 20 anni. Serve più radicalità per cambiare rotta

Tempo di lettura 3 minuti

L’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (UNHCR) conta non meno di 40 mila morti nel Mediterraneo negli ultimi venti anni. Per ragionare sulle migrazioni odierne bisogna partire dal presupposto che tutte quelle morti si sarebbero evitate se ci fossero state politiche dell’immigrazione differenti, fondate sulla concessione di visti e procedure semplici di ingresso nei paesi europei. A questi morti bisogna aggiungere quelli nel deserto e lungo i viaggi nel continente africano verso i paesi del Nord Africa e tutte le persone bloccate nelle prigioni e nei centri di detenzione libica così come al confine tra Polonia e Bielorussia e in Turchia, specialmente dal 2016 in avanti per via dell’accordo con l’UE. Sono note le violenze vissute da queste persone, non solo in Libia, ma lungo i viaggi, così come in Turchia, soprattutto per le condizioni di lavoro povero che affrontano centinaia di immigrati e rifugiati e lungo i Balcani.

Incontrare la morte o la violenza è, dunque, una possibilità sempre più presente per una parte delle persone che si spostano attorno all’area del mar Mediterraneo. Si tratta di un’esperienza messa in conto, diffusa, e non di un’eccezione. Né, tanto meno, si tratta di una casualità.

Sono numerosi gli episodi di violenza vissuti sulla pelle dei migranti durante il viaggio

Non si tratta di una casualità in quanto tali morti e violenze si concretizzano in un quadro di politiche migratorie che sin dalla fine degli anni ’80 ha individuato nella figura dell’immigrato irregolare la minaccia da combattere, per affermare il principio per cui sono gli Stati a decidere/selezionare chi entra, quanti ne entrano, per quanto tempo e per fare cosa.
Un’ultima evidenza in ordine di tempo di questo principio di gerarchia è il caso della Polonia, che, nel discorso pubblico, sarebbe un paese che non vuole gli immigrati. Nel 2019, la Polonia ha riconosciuto un primo permesso di soggiorno per motivi di lavoro a 625.120 persone fuori dell’UE, nel 2020 a 502.342 persone (dati Eurostat). Sul totale dei primi permessi per motivi di lavoro concessi nell’Unione Europea nel 2019 e 2020, la Polonia ha concesso il 54% del totale (2.101.186). Cioè, la metà dei nuovi ingressi per motivi di lavoro in UE è avvenuta in Polonia. Dunque, questi paesi (come tutti gli Stati) vogliono gli immigrati che dicono loro, come dicono loro, quando e quanti dicono loro. Il diritto di asilo mette in discussione questa politica e, allora, gli Stati diventano brutalmente ostili contro chi non rientra nei loro piani, contro i potenziali richiedenti asilo, spesso in fuga da zone di guerra, come l’Afghanistan: è ciò che accade al confine tra Bielorussia e Polonia, ad esempio.

Gli strumenti adottati dagli Stati, che, durante gli anni ’90, hanno definito una politica comune europea delle migrazioni, si sono fondati sull’esternalizzazione delle frontiere e le espulsioni – mediante accordi bilaterali (il caso Spagna-Marocco dei primi anni ’90 è stato pioniere) – così come sulle manovre di dissuasione verso gli arrivi via mare (ricordiamo l’affondamento della Kater i rades nel 1997 e i respingimenti collettivi, per cui lo Stato italiano è stato condannato nel 2012 con la sentenza Hirsi.

Leggi nazionali, direttive comunitarie, accordi con paesi terzi, sviluppo e utilizzo di tecnologie digitali e tradizionali di controllo sempre più sofisticate, incremento crescente dei poteri e delle risorse finanziare per Frontex, l’agenzia europea di difesa dei confini, hanno costruito un dispositivo flessibile che persegue uno scopo fondamentale: bloccare la mobilità di quelle popolazioni che per ragioni economiche e/o geopolitiche non riescono a ottenere i visti di accesso o sono considerate indesiderabili anche nella qualità di richiedenti asilo. Questa finalità delle politiche europee e dei singoli stati membri va oltre gli orientamenti ideologici dei singoli governi. Essa guida le scelte europee sin dalle origini, a seguito dell’apertura dell’area di libera circolazione in Europa tra il 1985 (anno dell’Accordo di Schengen).

Se vista dal punto di vista di chi si ritrova nei campi di prigionia in Libia, nella neve nei paesi balcanici, nelle strade e nelle tende attorno agli hotspot nelle isole greche, o in Turchia, a dormire nelle fabbriche tessili in cui sono occupati in maniera irregolare una parte dei rifugiati siriani, questa modalità di governo della mobilità umana si configura come una politica di violenza delegata.
Le alternative alle attuali politiche migratorie ci sono, ma richiedono radicalità: concedere visti di transito e ingresso a chiunque ne faccia richiesta potrebbe essere una strada, dunque una rivendicazione su cui costruire una politica per liberare le migrazioni dal contesto di morte e sofferenza in cui sono state gettate.

Gennaro Avallone

Nato nel 1973, è professore di sociologia dell'ambiente e del territorio presso il Dipartimento di studi politici e sociali l'Università degli studi di Salerno. Tra i suoi temi e ambiti di ricerca si segnalano i processi di emigrazione e immigrazione, il razzismo, il lavoro agricolo, l’ecologia politica e la sociologia urbana.

Previous Story

Stranieri vittime di sfruttamento, lavoro nero e caporalato

Next Story

Le grandi dimissioni per riprendersi la vita