Come potrei tentare di definire meglio questa raccolta di carmina ecfrastici ispirata alla pittura parietale romana del Vesuviano che un breviario sui generis di antropologia della resilienza/resistenza umana alla catastrofe?
Breviario, nel senso di una preghiera fatta di frammenti, insieme laica e scettica, materialistica e mistica, dissacrante e sacrale. Disperata, forse e senza sbocchi consolatori, ma aperta pur sempre alla dignità nella fragilità che sottende questo trascurabile incidente casuale che mi pare essere la vita (umana, ma anche universale).
L’ho composta nell’arco di circa 8 mesi, da gennaio ad agosto 2024 (con una chiara opzione per l’ipotesi originaria della data agostana proposta da Plinio il Giovane nella sua lettera a Tacito, anche se ormai appare quasi certo che la data vada spostata in autunno, un paio di mesi più avanti).
Resistenza, dunque. Resistenza e resilienza alle catastrofi ambientali, catastrofi storiche (geo-politiche, belliche, ecc.), ma anche alle catastrofi del senso: le scosse che le hanno preannunciate in questo lasso temporale (letterali come il bradisismo dei Campi Flegrei o i massacri delle terre di Palestina e di Ucraina o “immateriali” come lo sgretolarsi progressivo di ogni “umanesimo critico” dall’orizzonte delle nostre sofisticate società post-moderne), sono le tracce di una crisi che spetta agli storici indagare.
A me, incamminato casualmente e del tutto azzardatamente, sui tortuosi sentieri dell’ut pictura poësis, è parso difficile sottrarmi alla tentazione di immaginarmi come un anonimo artigiano pompeiano, paretarius o imaginarius, in bilico su di un’impalcatura (come i pittori al lavoro dell’isola dei Casti Amanti a Pompei, di cui mai sapremo il nome), mentre, sotto, il terreno si apre in voragini mostruose. Dalle fenditure escono strane esalazioni velenose, lontano si odono strepitii e boati e gli stipiti delle porte vengono trovati fuori dai cardini del tutto incomprensibilmente.
So bene cosa dico quando affermo che, oltre alla “maniera” e all’atteggiamento da virtuoso eclettico che mi deriva dalla frequentazione artigianale delle litterae, ho avuto bisogno di una discreta dose di “sangue freddo” per rimanere sul posto, almeno fino a un momento prima dell’eruzione.
Un’eruzione che c’è stata, dopo gli orrori di Gaza e del cambiamento climatico, almeno per quanto mi riguarda, anche se nessuno sembra accorgersene.
Ma lo spazio della creazione artistica è un cantiere aperto, sui processi interni come sul mondo. La scena è qui il processo stesso della composizione, pittorico prima, materico poi (quante trasformazioni dovute al calore dell’eruzione, all’azione delle intemperie, alle manipolazioni maldestre della riscoperta, fino ai più recenti restauri!), percettivo e poetico, oggi.
Qualcuno ha scritto in un passato recente che la parte finale del XX sec. può essere considerata come l’età del panico: a maggior ragione, credo, può esserlo il primo quarto del XXI. Eppure, da appassionati (pur nel nostro piccolo) grecisti, non possiamo esimerci dal ricondurre l’origine, anche etimologica, del panico al dio Pan, a torto considerato da alcuni un dio minore.
Quando l’afa diventa opprimente, il respiro sembra mancarci e la canicola ci sottrae la nostra forma più umana (l’umbra) ci sembra che il reale si dissolva, che la ragione smarrisca se stessa e che, nelle parole di Yeats, “things fall apart: the centre cannot hold”.
È il panico, che si scatena nelle nostre teste e ci porta a fuggire nella direzione sbagliata per scampare la furia della natura o, in altri casi, a scannarci impunemente, come già gli Argonauti fecero coi loro ospiti, i Dolioni di Cizico, accecati da una hybris senza causa apparente e senza direzione.
Salvo, poi, una volta ritrovata la misura della ratio e del logos, ritrovarci spogli nella nostra animale nudità ancestrale, tutti imbrattati del sangue nostro e altrui, cercando di rimettere insieme un brandello di senso, ripartendo da un comune senso di pietas, l’unica fioca luce che guida Enea nella discesa all’Ade o, per addivenire a tempi più a noi prossimi, la timida infiorescenza che resiste alla lava del “distruttor Vesevo”.
Ovviamente, il senso storico ci impone di contestualizzare. Sappiamo bene che in una società dura e cinica come quella romana a Pompei sul finire del I secolo d.C., sarebbe fuori luogo parlare di resistenza nei termini di una lotta di classe organizzata o, anche, di un umanesimo critico pre- o post-illuministico.
Lo stesso nascente concetto di humanitas, forse il maggiore retaggio della filosofia stoica, aveva tutt’altra accezione che la sua rielaborazione nella modernità. Del resto, l’universalismo cristiano era ancora una pallida prospettiva di trasformazione, di cui, a tutt’oggi, non sono emerse tracce inequivocabili, almeno nel Vesuviano.
Eppure, il colorismo sperimentale e virtuosistico di questi anonimi artigiani sull’orlo dell’abisso (il cosiddetto IV stile dell’epoca neroniano-flavia), non cessa di richiamarci all’idea di un rinascimento che sa, per molti aspetti, di resilienza. Con la loro geniale percezione del reale alla luce del mitologico, con le loro lungimiranti innovazioni tecniche (il compendium, il chiaroscuro, la prospettiva, lo stucco policromo), con la loro manieristica ossessione, direi, fatta di un’ idiosincratica ripetizione all’infinito del modello derivante dalla tradizione.
Ce li restituisce, nel tempo attuale, lo sguardo pietoso che s’apre su questi frammenti pittorici di cui possiamo solo immaginare l’insieme da cui provengono.
Come una lanterna accesa nel buio, questo sguardo torna a interrogarli, a contemplarli, estatico: ad esso appaiono come un fiore – dai petali che si sbriciano come versi – dopo secoli di stratificata, vulcanica gestazione.