Cacciari, una metafisica concreta per un ritorno a Platone

Una storia della metafisica, quella del filosofo veneziano, con una sequenza impressionante di domande. In questo libro si tenta una Metafisica dell’Impossibile come possibile sviluppo di un fare filosofico dove la filosofia nella sua concretezza pone se stessa come un infinito convergere verso quei luoghi di confine, di estremità e quindi di desiderio, di curiosità o anche di angoscia che fanno dell’esistere l’intenso rapporto tra l’essente e il Tutto, tra ciò che si dà in presenza e ciò che si nasconde, tra il visibile e l’invisibile, tra l’udibile e l’inaudibile, tra il possibile e l’impossibile

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L’impossibile è oltre, metà le possibilità actu presenti, e determinabili perché presenti, nella potenza degli essenti, di tà physiká, ma nient’affatto astrattamente al di là di essa, e meno ancora con essa incompatibile. Accanto a necessario e contingente e irriducibile ai loro modi è il possibile – il possibile impossibile, l’Impossibile con cui l’esserci, nella propria stessa dynamis, ha cura di sostenere un insopprimibile, ontologico rapporto. Massimo Cacciari, Metafisica concreta, Adelphi, pag. 423.

Una storia della metafisica, quella del filosofo veneziano, con una sequenza impressionante di domande ­­– ma la filosofia non deve dare risposte? Severino docet – e un incedere tanto affascinante quanto rigoroso verso un tentativo di ridefinizione o di riconversione della stessa nei termini più corporei o agevoli di una maggiore comprensione e di una più felice apprezzabilità. Alla maniera di P. A. Florenskij (Evlach, 1882 – Leningrado, 1937), una “Metafisica concreta” è il titolo che il teologo, filosofo e matematico russo voleva dare alle sue ricerche conclusive e che Cacciari riprende nel tentativo pratico, speculativo di unire scienza e filosofia al fine di recuperare quell’integrità dell’ente o quell’inesauribile vita dell’essente. Siamo al cospetto, pertanto, di una disciplinata e risolutiva riflessione sulla metafisica nei suoi sviluppi più ardui (Spinoza, Leibniz, Hegel, Nietzsche, Heidegger, Severino). La stessa parola “metafisica”, quindi, se da un lato si attesta come problema, dall’altro è considerata come un’infetta, una contagiata cui bisogna stare alla larga. Una voce, insomma, che se non fa più paura, di sicuro qualche fremito di sconforto o di fastidio lo provoca ancora. Ben venga, allora, quest’opera di Cacciari che tenta una Metafisica dell’Impossibile come possibile sviluppo di un fare filosofico dove la filosofia nella sua concretezza pone se stessa come un infinito convergere verso quei luoghi di confine, di estremità e quindi di desiderio, di curiosità o anche di angoscia che fanno dell’esistere l’intenso rapporto tra l’essente e il Tutto, tra ciò che si dà in presenza e ciò che si nasconde, tra il visibile e l’invisibile, tra l’udibile e l’inaudibile, tra il possibile e l’impossibile.

Concreto, scrive Cacciari, è, in verità, solo questo insieme – e la metafisica, oltre la scienza teorica della natura, è il sapere concreto di questo insieme. “Oltre” assume qui in sé il senso pieno del cum, nulla di più alto o più nobile o sublime, nessuna pretesa di filosofia prima – è lo stesso confine perennemente in movimento dell’osservabile a imporre l’interrogazione sull’oltre. Metafisica è theoría dell’essente nel suo proprio nesso all’inosservabile; ogni essente è kósmos, ma la sua forma irriducibilmente singolare non appare che nel rapporto all’ápeiron onniavvolgente. Nessun al di là, nessuna Hinterwelt, o mondo dietro tá physiká, dietro il manifestarsi di Physis. L’apparenza, l’Erscheinung, il dominio dei tá physiká, vero-reale, e nient’affatto illusorio, è trascendenza in se stesso, apre all’inosservabile, a ‘ciò’ che possiamo indicare propriamente come Ab-solutum solo in quanto non predicabile secondo le categorie dell’intelletto. Si rinnova, quindi, una tradizione del Logos dove Metafisica significa voler dare più luce a ciò che in sé appare come l’ente concretamente inteso nella sua dimensione di presenza, di esser presente nell’istante in cui la luce lo riporta alla sua condizione di svelatezza. Lo sguardo metafisico così si disegna come uno stare accanto, un prendersi cura dell’ente, di esprimerlo secondo ciò che ne oltrepassa l’osservabilità, alla luce di ciò che secondo l’ordine del tempo appare di essi indicibile.

In breve, il fenomenicamente dato reclama la sua stessa esplorazione al margine di un abisso di possibilità infinite: l’Impossibile, dice Cacciari, inteso come éschaton del possibile, ovvero come il possibile che ogni possibile sia. Metafisica si muove dunque sul confine, o piuttosto sulla soglia, continua Cacciari, mai determinabile una volta per sempre tra osservabile e inosservabile. È ‘oltre’ l’osservabile nella misura in cui ogni confine è sempre anche oltre-passabile, ed è a un tempo, ‘con’ tutto ciò che all’interno di quel confine il giudizio sembra poter definire. È, a quanto sembra, la volontà sapienziale del Moderno e di un Cacciari platonico che rende evidente il mito della caverna del filosofo ateniese, in una sostanzialità dell’ente in luce delle sue diverse forme, delle sue possibili idee cui ne facciamo esperienza o oggetto di scienza. Pensare il possibile, quindi, fino all’estremo. Il possibile come penultima idea prima dell’Impossibile. E salvare quest’idea ascoltando i dissimili saperi, o le diverse sapienze in una possibile unità dove non c’è esclusione in gioco, né primati da contendersi. Come se fosse, il colloquio a essere divino, colloquio tra loro e di loro col mondo, philo-sophia e phil-agathia. “Noi adoriamo ciò che sappiamo” (Giovanni, 4,22). E si torna così dalla fine del libro all’inizio, dove Alétheia è condizione del nostro sapere e dove l’Agathón (il bene, il buono) è in analogia con il sole. Come il sole è in rapporto alla vista e al visibile, così l’Agathón è in rapporto con il νοῦς e agli intellegibili. Vista e mente. Sensibilità e conoscenza intellettuale. Tuttavia, se la sapienza greca ci indica la via verso il bene (qui il bene o il buono ha una sua connotazione pratica ontologica più che etica) con riguardo alla polis, – si legga a proposito le riflessioni di Aristotele sulla felicità riportate nella sua Metafisica – resta il dominio dello scientifico in ciò che implica l’esattezza e la precisione e il suo dire universale reso nel libro quarto della Metafisica in maniera chiara e incontrovertibile dallo stesso Aristotele, come nella stessa maniera è mostrato il ruolo del filosofo come chi è in grado di poter dire quali sono i principi più sicuri di tutti gli esseri. E il principio più sicuro di tutti, continua lo Stagirita, è quello intorno al quale è impossibile cadere in errore: questo principio deve essere il principio più noto (infatti, tutti cadono in errore circa le cose che non sono note) e deve essere un principio non ipotetico. Eppure, poche righe innanzi, Aristotele aveva affermato: “La fisica è, sì, una sapienza, ma non è la prima sapienza”. Allora, esiste un’altra sapienza! Una sapienza in vista di quel Logos che non ha bisogno di verità (certezza), realtà, oggettività? Fede? Anche il nostro apparire è fede. Severino lo afferma in maniera perentoria. Così tutto il moderno, da Cartesio, Spinoza, Leibniz, Kant, Hegel, Shelling ha tentato una spiegazione (mediazione), di quell’Essere superiore e creatore, intravisto dal Logos greco e poi sublimato e incarnato dalla cultura ebraico-cristiana con risultati a quanto pare non sempre adeguati, non da meno i tentativi, a volte titanici, per uscire da quest’assillo della metafisica (prima Marx in chiave sociopolitica ed economica e poi Heidegger con la sua densa ed esoterica filosofia dell’evento) o del tutto fuorvianti quando si esclude a priori qualsiasi domanda su ciò che, di là di ciò che ci appare evidente, si mostra come l’inspiegabile, l’assurdo, il mancante.

A questo punto, rovesciando Severino, si tratta di rassicurare il mortale non mostrando la verità del destino, quanto il bisogno di rassicurazione che sta al centro dell’errare umano. Ma grattacapo del discorso filosofico è che non ce la fa, così come non ce la fa il discorso scientifico, l’hegeliana Wissenschaft. La soluzione di Cacciari, scienza e filosofia insieme possono ritrovarsi nel comune intento di “spiegare il mondo”, è plausibile più di uno sconforto (idealità) che di una loro possibile integrazione e integrità. Shelling, scrive Cacciari, nelle Conferenze di Erlangen diceva che all’ingresso della Filosofia vanno scolpite le terribili parole di Dante sulla soglia dell’Inferno: “Lasciate ogni speranza, abbandonate tutto, tutto ciò che ancora è un essente… persino Dio, giacché anche Dio da questo punto di vista non è che un essente”. Rimane valido, tuttavia, il razionale intento di proseguire verso il bene, inteso e pensato in senso greco, sebbene nessun éthos possa esistere astrattamente separato dal timbro del dovere. “Metafisico è il riconoscimento della dimensione metapolitica che ogni ‘fare politica’, nel senso di costituire un ordinamento della pólis, ha sempre comportato. Un’astratta autonomia della politica, in quanto autosufficienza del potere politico, non è mai esistita, come non è mai esistita una guerra che non volesse ‘darsi ragione’. Ma una cosa è quella prospettiva metafisica e metapolitica che intende giustificare, dimostrare l’essere giusto dell’ordinamento politico dato, sia in termini economici sia giuridici, teologizzandolo – altra cosa, radicalmente distinta, è criticare quei termini mostrandone appunto l’impotenza a giustificarsi, ovvero la potestas sine auctoritate di cui dispongono”. Una metafisica concreta, quindi. Un agire, capace di superarsi continuamente fino all’Impossibile, dove si realizza l’αἰών, perché la totalità dell’umano è infinita e il presente solo una mera determinazione di un apparire che si dà nelle sue infinite possibilità. C’è da aggiungere soltanto una seducente o ironica considerazione, anch’essa di “concreta” metafisica, perché dettata da quel Logos che mai ci abbandona e che sembra essere nonostante tutto, l’unica e, forse, prima risorsa ancora disponibile. Ed è questa: Heidegger torna ai presocratici Parmenide, Anassimandro, Eraclito. Severino torna ad Aristotele e al suo principio di non contraddizione. Cacciari, lo scopriamo Platonico. Che dire? Non ci siamo mossi un granché. E la scienza? La scienza segue a ruota.

[Massimo Cacciari, Metafisica concreta, Adelphi, pag. 423]

 

 

 

 

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