Arminio segreto? Macché, ora è tutto in chiaro

La biografia narrata di Norma D'Alessio, in cinque sezioni, ricostruisce la vita e le opere del poeta contemporaneo più seguito e letto dagli italiani di ogni età.

Tempo di lettura 8 minuti
Franco Arminio (foto di Norma D'Alessio, dalla copertina del libro edito da Marlin)

Sabato 30 settembre (ore 19), presso i Giardini Piccoli di Villa Lanzara a Sarno, è stato presentato per la prima volta al pubblico il nuovo libro di Norma D’Alessio dal titolo “Arminio & Arminio” (edizioni Marlin). Si tratta di una biografia narrata del noto poeta irpino, fondatore della Paesologia. Il testo si compone di cinque sezioni, che abbracciano l’infanzia, gli affetti, le letture, le idee, le curiosità, il lavoro, l’attività organizzativa del poeta italiano più letto (soprattutto sulla rete) dagli italiani di ogni età. Dopo i saluti istituzionali, ha parlato del libro il giornalista Andrea Manzi, coordinatore di RQ-Resistenze Quotidiane. L’attore Angelo Maiello ha letto alcuni brani del volume. L’accompagnamento musicale è stato del maestro Luis Di Gennaro. Giovedì 5 ottobre si replica con la seconda presentazione del libro a Napoli (Sala Cristallo del Palazzo reale, ore 19) a cura dello scrittore Andrea Di Consoli e della giornalista Désirée Klain. Per gentile concessione dell’autore e dell’editore, pubblichiamo il primo capitolo dell’interessante e particolare biografia

 LA LOCANDA

“Erano assai tristi le sere dell’ultimo dell’anno all’osteria.”

 

Arminio ha avuto due grembi: quello materno e quello della locanda. Entrambi lo hanno formato e imprigionato.

La locanda, che chiamavano osteria, appartenne prima al bisnonno Antonio e poi al nonno Vito (morto a trentasette anni per essersi inzuppato di pioggia).

Fu poi la volta di suo padre Luigi, aspirante “Louis”, come il coniglio sua specialità, o don Luigi, come gradiva sentirsi chiamare quando andava fuori paese per gli acquisti.

Quel luogo fu la sua ragione di vita e ai clienti dava il nome di amici.

Coltivava con loro un rapporto di odio-amore, anche se forse si trattava più di amore che di odio. Se scarseggiavano imprecava, sentendosi prossimo al fallimento. Quando arrivavano invece si animava, e se per la stanchezza si schiacciava un po’ nel sonno da seduto, con la testa abbandonata sulle braccia, gli bastava l’approssimarsi di una voce per scattare sull’attenti. Già nel sonno macinava che c’era un conto da preparare.

Altre volte la memoria del figlio poeta lo rivede seduto d’estate sul gradino appena fuori della porta, con indosso il grembiule che non toglieva mai. La fatica lo teneva con un occhio chiuso, gli affari della locanda con un occhio aperto.

Era di bella stazza, naso pronunciato e viso lungo, le orecchie sporgenti.

La copertina del libro

Non era cattivo, ma aveva il malumore attaccato, così come sua moglie l’apprensione. Da buon bisaccese, coltivava sempre qualche risentimento, soprattutto nei confronti dei compaesani che sminuivano la sua cucina. Una volta che certi tizi dopo mangiato andarono via criticandolo, e per strada il loro scontento lo misero pure in musica, rivelò la sofferenza. In quel momento dovette realizzare che i bisaccesi non lo amavano. Ma lui c’entrava poco. Il bisaccese, meglio ancora l’irpino, giusto con i compaesani dà il peggio di sé.

D’altronde la sua caratteristica era spazientirsi senza ragione, oppure per un motivo talmente inconsistente che dopo cinque minuti ne svaniva il ricordo.

Coi familiari non gli riusciva di esternare il sentimento. I padri di allora erano così. L’unico attaccamento capace di comunicare era ai suoi clienti, quando con occhio grato li ringraziava di aver scelto la sua locanda, raccomandando loro di tornare, perché erano sempre aperti anche nella controra. Capitava, infatti, che dei forestieri venissero verso le cinque del pomeriggio, nell’ora lenta in cui non c’era nulla di pronto e sua madre era solita cucire.

Quando se ne andavano, se avevano tagliato sul prezzo, Luigi li malediceva, salvo ripetere lo stesso cerimoniale la volta successiva. I riti nella locanda erano sempre gli stessi, come numeri incolonnati.

Accadeva però – in certi incontri con taluni personaggi del paese – che quella ritualità facesse posto a un’altra più scoppiettante, animata in genere da conversazioni politico-esistenziali. Qualcuno era militante di partito o legato a un’ideologia. Anche Luigi in passato era stato un simpatizzante socialista. C’era poi chi vagheggiava un’altra parte del mondo e nel parlarne gli si infiammavano le pupille. Anche se in fondo tutti avevano nel cuore solo quel posto lì, che d’inverno diventava come un presepe con le capre e gli asinelli sopra il muschio e la neve.

Non era brutto Luigi, ma al figlio Franco sembrò sempre tale, soprattutto se lo immaginava nell’atto di possedere sua madre.

Se osservando una foto gli dici non era brutto tuo padre, lui taglia corto: “io lo percepivo così.”

Il suo mondo si svolgeva tutto tra locanda e cantina: l’oste Luigi un altrove non ce l’aveva. Unico suo progetto la locanda. Unico suo vento quello del malumore. Non era uomo di confine come il figlio poeta, che ha bisogno di sporgere dal bordo, bensì un uomo programmato per l’osteria e risolto solamente come oste. Forse Luigi avvertiva che il suo vuoto poteva colmarsi solo se trattato da officina.

Voleva la sua cantina sempre approvvigionata di buon vino, quello così buono che se si taglia con l’acqua nessuno se ne accorge. Vi assiepava casse di bicchieri che, dopo anni dalla chiusura dell’osteria, ancora sbucavano da qualche parte, come un popolo chiamato all’appello dall’illusione della voce del padrone. Li comprava per tenerli di riserva oppure glieli regalavano sull’acquisto di birre e liquori; quindi, ce n’era sempre una quantità notevole, che notevole però a lui non sembrava, tant’è che quando se ne rompeva uno esplodeva adirato.

Anziché accomodarsi nel dialetto, che gli veniva naturale, si impuntava spesso a parlare italiano coi clienti. Liberava frasi del tipo: “Quest’agnello è cresciuto allo stato ebraico!”. Che fossero strafalcioni però c’era chi lo capiva e chi no. Le ignoranze lessicali si affiatano, a volte naturalmente, a volte per solidarietà.

L’atmosfera dell’osteria era sempre chiassosa, e quando non lo era ci pensava lui a renderla così. I clienti pagando il conto acquisivano il diritto al cibo ma anche alle chiacchiere, dunque dovevano sorbirsi l’oste, il suo elevato tono di voce e le sue domande impiccione. I momenti più vivaci erano quelli legati allo sport visto in tv. Suo padre si trasformava. Lui, che non ne aveva mai praticato alcuno, diventava atleta di critica e invenzione. Dispensava le solite urla e i giudizi secondo lui competenti. Spesso si presentavano compaesani di uguale risma per inscenare tifoserie e divertirsi a insultare gli avversari. Le sedie sotto ai loro culi pativano i più turbinosi sbattimenti, il pavimento rintronava e qualcuna prendeva pure il volo.

Incontri terapeutici, grazie ai quali si eliminavano frustrazioni e si tornava a casa alleggeriti e contenti.

Naturalmente si trattava per lo più di calcio, ciclismo e boxe, gli sport popolari di allora. Soprattutto per gli incontri di boxe, i nervi di Luigi diventavano fionde, pronte a colpire col sasso dell’eccitazione.

Le sere dell’ultimo dell’anno invece erano tristi: la locanda si svuotava di quelle poche presenze solitarie e malinconiche, diventando come un corpo nudo infreddolito. Ansimava aria di solitudine e fu forse in quelle sere che Arminio cominciò a frequentare il sentimento della desolazione.

Franco respirava quell’aria innaturale per i suoi anni, sentendosi disorientato. Un paesologo cresciuto spaesato. Forse si aggancia a queste antiche sensazioni il suo attuale desiderio di preferire i paesi vuoti. Inoltre non aver goduto dell’apprezzamento di suo padre, negatogli perché troppo bramoso di altrove, intelligente di un’intelligenza che non serviva alla locanda, creò in lui “quella voragine di incredulità attorno alla quale ruota tutta la sua vita.”

Però sono faccende complicate, che non fanno capire se nasce prima l’uovo o la gallina. Quando i clienti se ne andavano e nel pieno della sua soddisfazione il padre affermava: “Sono rimasti storditi!”, percepiva forse che il figlio appena ragazzo era distante e indifferente a quella gratificazione? O che addirittura infastidito, non la condivideva?

Verrà poi un giorno, molti anni dopo, che le distanze tra padre e figlio si accorceranno e Arminio dirà che la sua vita è ancora una faccenda da osteria; e che anche lui, come suo padre, fa l’oste. Suo padre serviva pietanze, lui serve poesie. La gentilezza di suo padre era per i clienti, quella di Arminio per i lettori.

Il suo perenne palpito per i dolenti.

E verrà anche un tempo in cui Arminio scriverà:

 

Sacro era mio padre

ma io non lo sapevo.

Era sacro quando urlava,

quando vedeva partite.

Era sacro e non lo sapevo.

 

Sul finire degli anni Settanta il benessere economico post emigrazione avanzò anche nei paesi più piccoli e consentì di festeggiare i primi matrimoni in osteria. Allora i nervi di Luigi impazzivano. Bisognava approntare tavoli e cibo per decine di persone (nel ’73, quando la “Cantina del Grillo” diventò “Trattoria al Grillo d’oro”, si arrivò a servirne centocinquanta e in talune circostanze anche molte di più). In quei giorni per preparare si tirava notte tarda e in famiglia erano tutti sequestrati, a cominciare dalla moglie Flora. Anche le camere da letto venivano svuotate all’occorrenza, ma ai mobili che viaggiavano di continuo erano ormai tutti abituati. Loro non abitavano in una casa normale, non riposavano sul divano, non immaginavano nemmeno come potesse essere l’intimità di una famiglia. Tutto accadeva nell’osteria, lì si svolgeva la vita. Solo nelle rare occasioni in cui la locanda rimaneva vuota, il poetino Arminio poté godere di un tavolo tutto suo e immaginare l’osteria come una casa. Le stagioni, come i topi nella cantina, transitavano da lì immutate, e il nostro poeta, prima dei trent’anni, non seppe mai cosa fosse mangiare in casa d’altri. Dopo il pranzo – perché allora ai matrimoni si festeggiava solo col pranzo e non con la cena – i tavoli in più dovevano sloggiare. Bisognava fare spazio per i balli. Arminio racconta che da quel momento in poi erano gli stessi invitati a gestire la situazione e a controllare eventuali intrusioni. Lui, spinto dalla golosità, approfittava specialmente dei dolci, che noi meridionali chiamiamo paste.

Ancora oggi se gli si chiede quali siano i suoi dolci preferiti, senza indugio risponde: “Tutti!”. Per poi rettificare: “La delizia al limone”, tipica della costiera amalfitana e sorrentina.

Invece non accese mai una sigaretta – e nemmeno suo fratello Vito – stomacato dal fumo passivo che era il cielo della locanda. Al contrario, suo padre Luigi aveva sempre la sigaretta poggiata sulle labbra e fumava come un turco, anche se ripeteva di non aspirare. Mentiva, infatti morì per un cancro ai polmoni, lo stesso male con cui se ne andò sua madre, vittima probabilmente di tanto fumo passivo.

Giocava anche lui a carte, come la maggior parte dei bisaccesi, ma a un certo punto smise, timoroso di prendere il vizio e mettere a rischio il lavoro, sua priorità.

Arminio cominciò presto ad avere consapevolezza che il suo carattere, come quello del padre, era inquieto. Restava a lungo fissato su un pensiero, un’opinione. Era spesso smanioso, gli scattava l’incapacità di stare fermo, diceva di avere le formiche nelle gambe. Si formava tra ubriachi e semplici anime operaie. La repulsione per cose schifose costretto a vedere, come gli scaracchi dei vecchi, non lo allontanava da queste persone, che, anzi, gli piantavano in cuore il germe della compassione che non lo avrebbe più lasciato. In quell’atmosfera dove il carattere e lo spirito del padre imperversavano come fosse il capocomico nevrastenico di un grande teatro, Franco intuiva che la sua strada sarebbe stata un’altra, pur intimamente collegata a quel posto carnale, che tutto sommato era luogo di pacifica irrequietezza ma non di vere frizioni, come quelle che avrebbe sperimentato altrove nella vita. Dal padre e dalla madre, dal sodalizio del loro pessimismo, avrebbe ereditato “quello che non serve a vivere, ma a scrivere”.

E mi verrebbe da dirgli: i tuoi genitori ti hanno dato due volte la vita!

 

Il Grillo d’oro

sta sul lato morto della strada,

è l’ultima casa aperta

sulla destra di via Mancini.

Il luogo è antico

e c’è ancora un’aria

che tiene caldo il cibo:

mio padre cura ogni tavolo

come se fosse un nido,

riempie il piatto, gli dà peso.

Io sono il figlio che scrive,

la mia pietanza non si vede,

lo smalto è leso.

Io recrimino sul mondo

sempre più sfinito e astratto.

Mio padre non pensa al mondo

ma solamente al piatto.

 

Lato morto perché, secondo il Piano di ricostruzione del dopo terremoto dell’Ottanta, avrebbe dovuto essere abbattuto, il che non fu mai. Tuttavia Bisaccia è comunque un luogo di lati morti, giacché molte case lo sono, molte porte sono chiuse per sempre.

Ma: “I luoghi non sono interscambiabili. Bisaccia c’è solo qui.”

Previous Story

La perenne attesa di un vero partito riformista

Next Story

Fake news e social, il triste primato italiano