Sanità. Sei lettere, una parola semplice che da anni oramai nel nostro Paese è sinonimo di “emergenza”. Caos nell’accesso ai pronto soccorso, carenza dei medici di emergenza, spese alte, viaggi della speranza, tetti di spesa troppo facili da raggiungere e sempre più persone che rinunciano a curarsi. I mass media dipingono quotidianamente, anche grazie agli avvenimenti di cronaca, un quadro a tinte fosche dell’emergenza sanitaria oramai cronica nel nostro Paese, con picchi specialmente nel divario, che spesso appare incolmabile, tra Nord e Sud.

Ne abbiamo parlato con il dottore Attilio Maurano, capo dipartimento formazione Cisl Medici, vice presidente dell’Ordine dei Medici di Salerno, già direttore del Reparto di Endoscopia Digestiva del Ruggi d’Aragona di Salerno, dislocata presso l’Ospedale Fucito di Mercato San Severino.
Dottore Maurano, gli ultimi dati Istat hanno fornito un quadro allarmante: nel 2024 un italiano su dieci, quasi il 10% della popolazione, ha rinunciato alle cure per le lunghe liste di attesa e per i costi alti delle prestazioni sanitarie. La sanità nel nostro Paese è davvero tanto in affanno?
Purtroppo non tutti possono permettersi le cure sanitarie e in tanti rinunciano per motivi economici. Spesso da noi, anche se al Nord si ragiona diversamente, non c’è la cultura delle assicurazioni. Qui entra in gioco anche il discorso sanità pubblica/privata: Non abbiamo un privato puro che fa attività; noi abbiamo un settore privato che appare pubblico in quanto finanziato dal Servizio Sanitario Nazionale ma con i tetti di spesa.
I famigerati tetti di spesa di cui si parla sempre e che impediscono di erogare per tutto il mese prestazioni sanitarie remunerate dal Servizio Sanitario Regionale di appartenenza. Un discorso che si traduce, per chi non può permettersi di pagare di tasca propria, in un rinvio di cure e accertamenti…
Il quadro è questo soprattutto perché le nostre regioni ricevono un finanziamento dal Servizio Sanitario Nazionale con un indice calcolato alcuni anni fa in base all’età della regione, faccio il caso della Campania, che per anni si è trovata ad avere a che fare con i piani di rientro. Il risultato è che qui la popolazione riceve circa 100milioni di euro annui in meno rispetto a quello che dovrebbe ricevere per la popolazione che ha. Il privato non potrà sostituire il pubblico, ma dobbiamo anche dire che non ci sono i fondi per poter dare tutto a tutti. Allora si devono assicurare livelli assistenziali a chi non può permettersi le cure e chiedere, anche con delle assicurazioni, la compartecipazione di chi può pagare. Ma queste sono problematiche strutturali del sistema sanità.
E qui entrano in gioca anche i Lea (Livelli Essenziali di Assistenza), un altro acronimo con cui la gente ha dovuto imparare a fare i conti. Tra l’altro le cronache recenti parlano ora, a proposito della Campania, di conti in linea e dello stop al piano di rientro.
L’ultima sentenza dice che la Campania è uscita dal commissariamento. Non voglio parlare di politica e non mi sembra il caso di farlo, specie in questo periodo. Ma una cosa vorrei dirlo: le guerre non fanno bene a nessuno mai, specie poi in settori come questi. La buona sanità si fa in maniera diversa, non certo con le chiacchiere. Le chiacchiere non aiutano neppure a snellire le liste di attesa: se non c’è il personale, ogni lotta diventa inutile.
Torniamo ai punti critici: i pronto soccorso affollati sono un dato di fatto; è solo colpa della carenza di medici?
Stiamo scontando evidenti errori di programmazione nell’accesso alla facoltà di medicina: parliamo della carenza di circa 60mila medici. Siamo passati dal libero accesso alle forche caudine che hanno sottodimensionato gli organici. Ci è voluto il Covid per accorgerci che c’è questo problema e che abbiamo pochi posti in rianimazione. Poi, come se non bastasse, dobbiamo anche dire che i giovani medici sono sempre più spinti ad andare all’estero perché tentati da condizioni migliori.
All’estero i medici vengono pagati meglio? O è una semplice fuga da un sistema che mostra quotidianamente i suoi punti deboli?
I medici all’estero ricevono uno stipendio quadruplicato rispetto a quello italiano. Nei giorni scorsi sono stato presidente di una commissione a Roma e ho incontrato giovani specializzandi che all’estero hanno uno stipendio superiore del doppio rispetto a un medico strutturato che lavora in Italia. Come può decidere di tornare in Italia un medico? Certo, la vita all’estero è più cara; ma lo stipendio è altissimo rispetto ai nostri.
In Italia oramai siamo soliti dire che mancano i medici nei Pronto Soccorso; sono pochi i giovani che scelgono il settore dell’emergenza: troppe responsabilità?
Quelli che lavorano nei settori emergenza/urgenza scappano per via delle leggi che li penalizzano e per la violenza che, ahinoi, anche per le situazioni in cui lavorano, è all’ordine del giorno. Nelle scuole di specializzazione mancano proprio gli aspiranti medici d’urgenza. E, tornando al discorso di prima, come può funzionare l’accesso in emergenza agli ospedali se non ci sono medici? A dire il vero oggi cominciano a mancare anche i medici di base. Ma di questo passo andremo sempre peggio… Poi parliamo tanto delle Case di comunità (strutture sanitarie che dovrebbero servire a rafforzare l’assistenza sanitaria di prossimità, nda), ma il personale dove sta? Dove sono i soldi per pagare queste persone? Assistiamo a enunciazioni bellissime, vediamo progetti fantasmagorici, c’è la tecnologia che fa passi da gigante e poi manca chi mette tutto in pratica.
Qual è, secondo lei, l’aspetto più importante e che spesso, nella narrazione mainstream viene sottovalutato?
L’umanizzazione delle cure è un aspetto particolarmente importante. Spesso come medici ci troviamo ad affrontare situazioni in cui c’è poco o nulla da fare per il paziente e serve solo tanta umanità. E, invece, spesso anche per colpa di quello che ci siamo detti finora, i pazienti si interfacciano con medici stressati, che rischiano di essere aridi o poco umani. Oggi per un medico è facile raggiungere il burnout: sono sempre in mezzo a situazioni difficili, con risorse scarse o inappropriate. Anche dal punto di vista medico-legale, ci sono tanti errori che sono la conseguenza diretta del sistema: penso, per esempio, a chi è costretto a lavorare con turni massacranti pur di garantire i livelli minimi di assistenza…
Apriamo il capitolo della medicina difensiva, la pratica per la quale il medico, prima che a curare, pensa a proteggersi da eventuali azioni legali. È veramente un fenomeno tanto diffuso?
È la logica del mettere le carte a posto. La medicina difensiva costa milioni e milioni di euro. Il nostro Paese, assieme alla Spagna, è uno dei pochi paesi in cui c’è la possibilità di denuncia contro il medico come ammortizzatore civile: tutti denunciano il medico o il sistema per avere un rimborso. Addirittura esistono avvocati specializzati sul tema, e per questo abbiamo anche contattato l’Ordine degli avvocati per chiedere un intervento. La teoria dell’avere tutte le carte a posto comporta una spesa esagerata in medicina difensiva.
Sta emergendo un quadro a tinte fosche; per fortuna, però, ci sono delle eccellenze anche in ambito sanitario. La sanità può ripartire da questo?
Le eccellenze ci sono anche dalle nostre parti; nel mio vecchio gruppo di lavoro, il primario ha 40 anni e rappresenta un punto di eccellenza per la gastroenterologia in Campania. Ecco, c’è un’altra cosa da migliorare: i giovani devono avere la possibilità di andare a fare esperienza nei centri di eccellenza per formarsi al meglio.
Provi a vestire per un attimo i panni di un cittadino, non di medico; cosa rivendicherebbe nel settore della sanità?
Purtroppo essere medico non significa non ammalarsi, so cosa significa essere ammalati e posso dire che la nostra sanità, e mi riferisco a quella campana, paga difetti organizzativi di decenni, sottofinanziamenti e tanto altro ancora; ma ci sono regioni che stanno ancora peggio della Campania. Per alcuni noi oggi rappresentiamo punti di assistenza qualificati. Da cittadino rivendicherei una sanità più a misura d’uomo, più vicina, anche logisticamente alle nostre esigenze, ma con una organizzazione seria. Per esempio: si dividono i centri di eccellenza e gli altri fanno da supporto. Le strutture sanitarie universitarie sono quelle ad alta specializzazione e quelle sanitarie le supportano. Se questo sistema funzionasse avremmo percorsi più netti e chiari senza sprecare le risorse, assistendo meglio un numero di persone maggiore. Non per chiudere in polemica, ma su questo un po’ di responsabilità ce l’ha pure la mia categoria, quella dei medici: dobbiamo renderci conto che non tutti possono fare tutto.

