Viaggio in Brasile, tra le favelas notturne come alberi di Natale

Intorno a Rio se ne contano un migliaio sparse in ogni parte della città, dalla densità demografica folle: un milione e mezzo di persone risiede in favelas, ma i numeri sfuggono per la larga fetta degli “invisibili” mai censiti che vivono come fantasmi

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Rio de Janeiro, un aspetto caratteristico di questa contraddittoria metropoli

Il  Brasile è un Paese variegato da nord a sud, che sembra non finire mai. Attrae per la vegetazione esplosiva, le voci che comunicano cantando, il coacervo di razze e di colori. Ma più di ogni attrazione, saltano agli occhi gli agglomerati di casette a grappolo che ricoprono i fianchi delle colline nelle principali città, come Rio de Janeiro, Belo Horizonte, Recife, San Paolo. Quelle urbanizzazioni alla rinfusa sui promontori con bellavista sull’oceano, sono baraccopoli chiamate favelas. La “favelizzazione”  ha origini antiche. Parte dalla legge Aurea del 1888 che liberò la schiavitù, fino a giungere all’industrializzazione degli anni ’70, e quest’ultima favorì l’esodo rurale dagli Stati poveri brasiliani a quelli più ricchi, grazie anche alla richiesta di manodopera nella realizzazione di opere pubbliche.  Ma le favelas non sono un retaggio fisico e culturale del passato; anzi, in continua espansione, rendono l’attualità misteriosa e, per chi fosse estraneo al sistema, rappresentano una continua minaccia all’integrità di cose e persone.

Cos’è la favela? Un’area franca con caratteristiche specifiche: agglomerato di casette e baracche costruite con materiali di risulta su terreni di proprietà sconosciuta, carente in servizi essenziali – quelli esistenti derivano dagli intrecci diabolici dei collegamenti abusivi alla rete pubblica – poche le strade asfaltate e assenza di una numerazione civica. Vi risiedono poveri che vivono di espedienti insieme a quelli che, nelle favelas ci sono nati, e quotidianamente si recano al lavoro nei luoghi pubblici e privati delle città, gli arricchiti del narcotraffico che governano e presidiano il territorio sostituendosi  allo Stato. E quest’ultimo, occasionalmente, manifesta la sua presenza attraverso le incursioni della polizia speciale.

Rio de Janeiro, città da sempre presente nell’immaginario collettivo, ha visto crescere le favelas in anteprima e con una maggiore velocità. Intorno a Rio se ne contano un migliaio sparse in ogni parte della città, dalla densità demografica folle: un milione e mezzo di persone risiede in favelas, ma i numeri sfuggono per la larga fetta degli “invisibili” mai censiti che vivono come fantasmi. La favela più antica di Rio e la più popolosa dell’America latina si chiama Rocinha, e sconfina nei quartieri dei grandi alberghi e dei palazzi moderni di Sao Conrado e Gàvea, abitati dal ceto medio-alto carioca. Non esistono confini tra il paese dei fantasmi e i quartieri residenziali. La frontiera la crea la guardiania privata e le recinzioni di cancelli e sbarre sormontati dal filo spinato: simboli iconici e strutturali di una doppia faccia della schiavitù. E’ difficile per un europeo  camminare sul filo tra i due mondi, senza rischiare di precipitare da una parte oppure dall’altra. Sentire che un “favelado”, forse perché uomo ombra al fisco, non si lamenti della sua appartenenza alla città – ghetto e constatare che nessun residente dei quartieri bene se ne dolga dell’esistenza e accetti, suo malgrado, di vivere barricato in trincea, lascia spazio alla riflessione.

E il walfare? Le autorità governative guardano con indifferenza  il sorgere di nuove favelas per incapacità nel gestire la tracimazione umana, ma soprattutto per la mancanza di una reale volontà politica. Chiunque si alterni al governo del Paese, concepisce la favela come ammortizzatore sociale di società autogestite, in cui ognuno prega il suo dio in attesa dell’avvento catartico del Carnevale. In questi paradisi terrestri, in cui sgorgano cascate impetuose  tra l’esuberanza della vegetazione e le onde oceaniche si allungano sulle dune bianche, insieme al culto del corpo, i brasiliani coltivano quella spensierata allegria che fa presa sul visitatore occidentale piegato al pessimismo cosmico e alla malinconia, quest’ultima distante nella matrice emotiva dalla “saudade” portoghese.

Il viaggiatore, obnubilato dal contagio di un rinnovato entusiasmo, guarda le favelas notturne come fossero alberi di Natale o presepi illuminati creati a posta per fare bella la coreografia! Un proverbio brasiliano dice che “Tudo acaba em samba” (tutto finisce in un samba), e quel ritmo ipnotico che stimola la danza è l’elemento di congiunzione tra ricchezza e povertà, tra Sao Conrado e Rocinha. Ogni esperienza porta alla sintesi, che in questo caso si concentra in una domanda: “Un europeo potrebbe vivere in un Paese come il Brasile, rimanendo felice e cieco?” Le risposte arrivano da più voci divergenti nella sostanza: c’è chi in Brasile ci starebbe fino alla morte e chi, come il politico e scrittore francese Charles de Gaulle, ne ha un’idea diversa, “Non si può vivere in un Paese poco serio e il Brasile non è un Paese serio.”

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