Paolo Conte, la raffinatezza colta di un artista inimitabile

È tra i pochi a fregarsene del sublime. Non invia messaggi messianici né piange lacrime amare. Esprime malinconia, ma non infelicità e la sua torre d’avorio racchiude i simbolismi di un modo d’essere pratico e sognante

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Paolo Conte, un artista che vive per la sperimentazione e la sbria esecuzione delle sue opere

Una fetta di estimatori consapevoli avrà desiderato almeno una volta nella vita spedire a Paolo Conte un foglio bianco con la frase centrale e sintetica “Grazie di esistere”. In quest’epoca di canzonette orecchiabili durevoli il tempo di una stagione, specchio riflesso della mediocrità vincente in ogni campo, Paolo Conte è tra quei pochi artisti italiani viventi apprezzati anche all’estero, che scuote l’intelletto e incide solchi nella memoria. Alla maniera di un vinile sul piatto del giradischi, rappresenta un modo fisico di ascoltare la musica. La rivista “Rolling Stone” lo definisce “porto sicuro, il riferimento cui aggrapparsi in tempi aridi” e aggiunge “Sapere che prima dei trupper e dell’auto – tune sia esistito ed esista Paolo Conte, è una gran consolazione.” Nato ad Asti nel 1937, città – personale finestra sul mondo che non abbandona mai, subisce l’influenza della scena jazz piemontese e durante gli anni del fascismo nonostante Mussolini mettesse al bando ogni contaminazione americana, studia il pianoforte e fa sue le innovazioni musicali d’oltreoceano. Cantautore polistrumentista, autore di brani portati al successo da altri artisti (“Azzurro”, “Messico e nuvole”, “Insieme a te non ci sto più”), pittore e avvocato, lascia la carriera forense nel 1974 per dedicarsi al suo genere musicale eclettico e colto, che spazia dal jazz al blues, dalla verde milonga ai baobab dei ritmi africani. Gli arrangiamenti sofisticati e la voce baritonale conferiscono uno stile inconfondibile alle canzoni, i cui testi enigmatici e poetici, in linea con l’ermetismo dai colori naif, narrano storie surreali, affollate da personaggi immaginari; creano atmosfere retrò, umide del sudore di Bartali e dei vecchi orchestrali profumati di sorbetti al limone e di quel curacao preferito da Hemingway. Non manca la stagione delle donne imperfette: “Perché l’inverno è meglio. La donna è più segreta, morbida e pelosa, bianca afghana, algebrica e pensosa.” Le sue opere piacciono, perché si legge l’intelligenza, l’umorismo misto all’esotismo, la raffinatezza congenita e acquisita da una famiglia d’origine sensibile alla cultura. Paolo Conte è tra i pochi a fregarsene del sublime. Non invia messaggi messianici né piange lacrime amare. Esprime malinconia, ma non infelicità. La sua torre d’avorio racchiude i simbolismi di un modo d’essere pratico e sognante, conservatore eppure aderente alla modernità: smoking sartoriali, occhiali colorati, nuvole di fumo, baffi curati e una grande riservatezza personale. Nei concerti dal vivo colpisce la presenza scenica da mattatore discreto, e quando la platea lo acclama non concede repliche: saluta il pubblico, il sipario si chiude e il mantello si apre. Senza abracadabra, fisicamente svanisce, “finché qualche altro dio non dica, descansate niño che continuo io”.

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