Palermo, da Champs Elysées italiana a preda del Sacco

Incontro su storia e destini della città con il giornalista Francesco Marotta, una vita al Giornale di Sicilia. Prima del conflitto mondiale Palermo era invidiata in tutto il mondo, basti pensare che, verso la fine del 1800, ospitava l’Esposizione universale. Poi, vennero gli anni del sacco edilizio mafioso, ma ora la Sicilia è crescita grazie al sacrificio di Falcone e Borsellino

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La cattedrale di Palermo

In un bar di fronte al teatro Massimo, tra granite, i caffè e il vociare dei turisti con il sole negli occhi, nasce una bella conversazione sulla Palermo dei siciliani. A parlarne è Francesco Marotta, per gli amici Elio, giornalista dall’esperienza trentennale al Giornale di Sicilia, laureato in Scienze politiche ed esperto in politica internazionale.

Buongiorno, Elio.

Buongiorno, Elvira. Gradisce un caffè?

No, grazie. Gradisco rubarle il mestiere in fretta.

Elio sorride. Mentre sorseggia il suo caffè, mi organizzo le idee e parto.

Il giornalista Francesco Marotta

Lei è siciliano purosangue, vero?

Sicilianissimo nato a Menfi di Agrigento e non d’Egitto, come mi toccava spiegare, ogni volta, ai colleghi americani. Palermitano di adozione.

Se dovesse fare un salto nella storia di Palermo, in quali anni si soffermerebbe?

Nei tempi precedenti il conflitto mondiale, quando Palermo era una città invidiata in tutto il mondo per le ville d’epoca, i viali alberati: la Champs Elysées italiana. Il teatro lirico Massimo, terzo in Europa per grandezza, fulcro della cultura cittadina. Basti pensare che Palermo, verso la fine del 1800, ospitava l’Esposizione universale, organizzata da Francesco Crispi: una fiera commerciale e di scambi culturali tra i Paesi del mondo. C’era apertura, tant’è che i nobili siciliani inviavano i figli a studiare a Parigi, a Londra. Certo, sto commentando un’epoca di prevalente analfabetismo: saper leggere e scrivere era già una conquista. E il dopoguerra ha inasprito fortemente la miseria.

Come si collocava la mafia?

Come un contropotere che afferma un sistema di giustizia sociale. Nei quartieri popolari, ad esempio, chiunque subisse un danno o un torto anche familiare si rivolgeva al caporione, uomo di riferimento dei vertici mafiosi. E la forza del sistema mafioso risiedeva nel risolvere qualsiasi problema in maniera rapida ed efficace.

Lei ha citato gli Champs Elysées di una Palermo parigina. Facciamo un balzo in avanti e mi parli della trasformazione urbanistica della città.

Negli anni ‘50 – ‘60 la mafia scopre il business dell’edilizia. La crisi economica agricola spingeva all’abbandono delle campagne per trovare lavoro in città. Le braccia sottratte alla terra furono impiegate nell’edificazione del “Sacco”, successivo all’acquisto di terreni, distese di agrumeti, meravigliosi giardini e il patrimonio storico. Ville e Palazzine liberty, che la nobiltà decaduta, priva di “piccioli” e supporto politico non era più in grado di mantenere, furono acquistate e demolite per fare spazio ai palazzoni di 6 -8 piani svettanti da Piazza Croce al Parco della Favorita.

Perché “il sacco”?

Perché finirono nel sacco del potere mafioso, politici, proprietari terrieri e quelli delle Palazzine liberty memoria storica di Palermo. Ne cito alcune: Villa Castellano del 1895, Villino Tagliavia, Villino Planeta, Villa Vitrano Hugony, Villa Deliella, costruita nel 1909 dall’architetto Ernesto Basile e di proprietà del Principe Franco Lanza di Scalea. Il Sacco ha cambiato volto alla città. Via della Libertà è espressione di quel boom edilizio selvaggio. Al grido “Palermo è bella e la faremo ancora più bella”, si è consumata la più grossa speculazione edilizia della storia d’Italia. Ma che dico! D’Europa.

I palermitani come giudicarono il cambiamento?

Non dannoso. Persino gli intellettuali non si sdegnarono come avrebbero dovuto.

Come lo spiega?

All’epoca non esisteva la cultura dell’antico. Anzi, le antichità erano considerate “vecchie”. Inoltre, la politica del mattone moderno costi quel che costi, diede lavoro alle classi più disagiate, arruolate come muratori, carpentieri, idraulici nella realizzazione delle autoclavi condominiali. Il problema della Sicilia è sempre stato l’approvvigionamento d’acqua. Questi furono gli anni felici della mafia: gestione del territorio, grandi guadagni e maggiore potere.

A proposito di politici messi nel sacco, come giudica Lima e Ciancimino?

Ho intervistato Lima ad ogni elezione europea, e fu proprio lui a procurarmi l’incontro con Giulio Andreotti per l’intervista sulla Guerra del Golfo. Lima fu ucciso a Mondello per non aver dato risposte alle pressioni di depistaggio del maxiprocesso di mafia. La mia opinione personale non conta. A differenza di Ciancimino, Salvo Lima è stato indagato e mai condannato. Chiuso il sacco ebbe inizio un periodo di crisi all’interno della mafia.

C’era da dirottare gli interessi?

Esatto. Alcuni mafiosi siciliani in stretto contatto con la mafia americana presero a chiedersi: “Perché non cambiare? Iniziare a fare affari con la droga avrebbe portato in cassa nuovi “piccioli”. Da qui il conflitto d’interessi tra famiglie mafiose e interno alla stessa famiglia tra i favorevoli e i contrari. Gli anni ‘70 – ‘80 sono gli anni delle stragi di mafia. Il 6 gennaio del 1980 cade vittima di Cosa Nostra Piersanti Mattarella, Presidente della Regione Sicilia, dopo aver dichiarato di prendere le distanze dagli interessi della criminalità organizzata.

Perché la mafia si è radicata in Sicilia?

La mentalità mafiosa ha radici storiche. Già ai tempi dei Borbone imponeva la sua presenza nel controllo della produzione agricola. La mafia segue le sue logiche: è potere e controllo, denari e prestigio. L’erba cattiva si radica là dove la struttura economica vacilla, là dove lo Stato mostra debolezza e incapacità nella risoluzione dei bisogni.

La mafia sembra un “male ineluttabile” in Sicilia. Quindi, le chiedo: “E’ mai esistita una vera opposizione al male?”

I veri eroi della guerra alla mafia sono Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. I due giudici facevano sul serio! La vera rivoluzione risiede nella fine dell’impunità dei boss.

Cosa intende, “fare sul serio”?

Nei precedenti processi, finivano in galera i ”picciotti” dei boss, mentre i boss non si incastravano mai. L’esempio tipico è il processo degli anni ‘60 confinato a Catanzaro, in cui c’erano grandi aspettative e invece furono assolti tutti con la formula classica: “insufficienza di prove”. Ecco, figuravano sempre come insufficienti! Fu un momento buio per la Sicilia. La grandezza di Falcone e Borsellino sta nell’aver distrutto il mito della mafia invincibile. Il maxiprocesso a Cosa Nostra negli anni 1986, 87 (nell’aula bunker dell’Ucciardone, con Aldo Grasso Pubblico Ministero e Alfonso Giordano Presidente), che vide coinvolti 475 imputati con diversi capi d’accusa, 200 avvocati difensori e un esercito di testimoni, si concluse con 19 ergastoli e pene detentive in primo grado, quasi tutte confermate dalla Cassazione. Per la prima volta la gente capì che si può dire “no”alla mafia.

Falcone e Borsellino sono morti, lasciando una grande eredità. Come giudica la Sicilia delle commemorazioni?

La Sicilia è cresciuta, grazie soprattutto al sacrificio dei due magistrati – simbolo di libertà e giustizia. Oggi c’è maggiore fiducia nelle istituzioni. La mafia rappresenta degrado e ignoranza. Confido nel cambiamento che nasce e cresce nelle aule scolastiche, tra le pagine dei libri, anche navigando nel web. Sarò ottimista, ma ho fiducia nelle nuove generazioni.

Da siciliano, cosa si aspetta dalla politica?

Ciò che manca: il lavoro, i servizi, una maggiore attenzione ai trasporti. La rete ferroviaria è obsoleta e parecchio carente.

E il ponte sullo Stretto? Non crede sia una violazione alla sacralità dell’isola?

Il ponte, per me, è una questione psicologica. A differenza sua, non amo il concetto di isola e la mentalità da isolano. Il ponte rappresenta una simbologia: l’integrazione della Sicilia con il Continente.

 

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