Naufragi nel Mediterraneo, industria di morti innocenti con tante colpe

Le tragedie si potrebbero evitare se l'Unione Europea e i suoi membri avessero deciso per altre politiche, basate sulla difesa del diritto a emigrare e non sulla lotta all’immigrazione definita irregolare

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Le Nazioni Unite contano almeno 45 mila morti nel Mediterraneo negli ultimi venti anni, dal 2003 al 2023. Tutte queste morti sarebbero state evitate se l’Unione Europea e i suoi membri avessero deciso per altre politiche, basate sulla difesa del diritto a emigrare e non sulla lotta all’immigrazione definita irregolare.

Dopo ogni naufragio, con morti e sofferenze, i governanti europei e nazionali ripetono la loro litania, sempre la stessa: lotta ai trafficanti, solidarietà tra gli stati, accordi con i paesi di partenza e transito per bloccare le persone ed evitare di rischiare di morire in viaggi pericolosi. Addirittura, arrivando a dire che la colpa è di chi si mette in mare sfidando la morte, come giunse a dichiarare il ministro dell’Interno Piantedosi dopo la strage sulla costa di Cutro.

Questa litania è, ormai, una debole retorica, offensiva prima di tutto per le persone che muoiono e i loro familiari. Una parte dei morti a Cutro così come di quelli di fronte le coste greche di Pylos del 14 giugno scorso aveva parenti in Europa: mariti, cugini, figli. Parenti che non avevano trovato il modo di ottenere i permessi per il ricongiungimento familiare. In assenza di alternative sicure sono, allora, andati per il mare, sperando di ritrovarsi con i propri cari. E così, un viaggio che in presenza di un documento sarebbe durato poche ore e costato alcune centinaia di euro, si è trasformato in un inferno che li ha condotti al baratro senza ritorno. Famiglie distrutte. Vite devastate. Altri, invece, avevano lasciato terre di guerre e crisi politiche ed economiche crescenti senza fine, come Siria, Pakistan, Egitto, Palestina. Anche per loro quella del viaggio in mare era diventata l’unica alternativa per cercare protezione e un rifugio degno di questo nome.

È l’assenza di alternative a determinare questi viaggi e, dunque, queste morti. Sono le politiche di chiusura selettiva dei paesi europei a produrre questi esiti terribili. Siamo di fronte, in altre parole, a delle stragi, nelle quali gli Stati hanno delle responsabilità, non fosse altro per il fatto di continuare a individuare il nemico da colpire negli scafisti e negli stessi immigrati potenziali richiedenti asilo, evitando di prendere in considerazione la concessione di visti e l’apertura di canali di accesso sicuri e garantiti.

Un’analisi simile è stata espressa da tanti. Ad esempio, come riportato dal magazzine Vita, l’arcivescovo di Palermo, Corrado Lorefice, ha definito la linea dell’Europa e dei governi nazionali un’“industria di morti innocenti”. L’attivista per i diritti umani Nawal Soufi, in contatto via telefono per ore con le persone poi naufragate, attraverso la sua pagina Facebook, ha ribadito ancora una volta che “fino a quando non verranno aperti canali legali per far entrare queste persone in Europa, saremo sempre allo stesso punto. Continueranno a morire esseri umani nelle acque italiane, maltesi, greche, spagnole e i trafficanti di esseri umani continueranno ad arricchirsi”. Le persone che incontrano chi richiede asilo dopo i viaggi nel mare e nel deserto, che parlano con chi ha fatto questa esperienza, sanno di cosa si sta parlando: del tentativo di trovare la salvezza o il ricongiungimento con gli affetti significativi dopo che tutte le porte per un’emigrazione sicura si sono chiuse o non si sono mai aperte.

È questo il vero volto dell’Unione Europea e dei suoi abitanti? Una società e un insieme di istituzioni chiuse, se non responsabili diretti, verso la sofferenza altrui? Questo siamo diventati? I fatti ci dicono che, sebbene in tanti si diano da fare nella società per invertire la rotta, stiamo cadendo in questo baratro, il quale sta trascinando il senso comune e i sentimenti popolari. Quale baratro? Quello dell’indifferenza verso tante morti e sofferenze. E quello della normalizzazione della violenza. Forse, siamo ancora in tempo per uscirne, come è stato dimostrato anche dalle manifestazioni che si sono svolte in Grecia per richiedere giustizia verso le autorità europee e nazionali, ma è necessario un movimento sociale internazionalista che, concretamente, chieda politiche migratorie giuste. E non più politiche di morte. Altrimenti, continuerà così, di naufragio in naufragio, di strage in strage. All’infinito.

Gennaro Avallone

Nato nel 1973, è professore di sociologia dell'ambiente e del territorio presso il Dipartimento di studi politici e sociali l'Università degli studi di Salerno. Tra i suoi temi e ambiti di ricerca si segnalano i processi di emigrazione e immigrazione, il razzismo, il lavoro agricolo, l’ecologia politica e la sociologia urbana.

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