La letteratura autentica dell’epistolario di Anna Maria Ortese

Una tra le voci più belle della letteratura del secondo Novecento scrive "Vera gioia è vestita di dolore, lettere a Mattia" con un candore inaudito, slancio visionario e responsabilità morale.

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Mattia tu ami chi ti consola con la parola e poi il “suo” cuore è distante e ha paura? No, vero? Nemmeno io. Io amo chi mi vuol bene per la mia disperazione – quello sento fratello o sorella – quello amo. Spero che sempre, fino alla fine, Iddio mi faccia conoscere la santa disperazione, che porge alle creature il bicchiere di ebbrezza e apre loro gli occhi sul mare della realtà. Vera gioia è vestita di dolore. Vero dolore è vestito di gioia. Sentire, sentire, sempre più “sentire”. Io non desidero altro. – Sant’Agata dei due golfi, 5 giugno 1941.

Cara Mattia, non ti scrivo più frequentemente di così, il perché puoi trovarlo anche in te stessa. Ci si sente, spesso, così veramente in fondo, falliti, che si perde il fiato per dire anche Dio. Questo è tutto. Scrivere, è uguale al canto raccolto e disperato del mare, nelle insenature segrete. È il rifiuto triste, non la vita. Vorrei essere, dove voi tutti siete. – Sant’Agata dei due golfi, 20 agosto 1941.

Anna Maria Ortese, Vera gioia è vestita di dolore, Adelphi, Lettere a Mattia, pagg. 160. Si tratta di un intenso epistolario (1940 al 1944) che Anna Maria Ortese intrattiene con Marta Maria Pezzoli, studentessa universitaria incontrata a Bologna e che gli amici chiamano Mattia.

Anna Maria Ortese nel 1940 ha ventisei anni e già troviamo tradotto in poche righe di lancinante bellezza ciò che sarà lo sviluppo, il fulcro, della sua vocazione di scrittrice. Un’intimità, ciò che si scorge in queste fiammanti lettere, fatta di ansie improvvise quanto di lacerazioni misurate, di tenerezza, di richiesta continua di perdono per i troppi eccessi di dolore. “Dunque, tu devi essere benedetta, Mattia, se in qualche momento mi hai permesso di soffrire un po’ di più”. Una premura, una sensibilità tanto più intensa perché istituita sulla disimmetria. Mattia è malinconica, sollecita, assidua, percettiva. Anna Maria è mutevole, tempestosa, non di rado, silente e tenacemente sofferente “per scelta”, per elezione letteraria, conoscitiva del mondo. O di ciò che sta di là di quel mondo angusto in cui si trova a vivere per necessità e vicende familiari.

Sant’Agata sui due golfi è un paesino sui monti alle spalle di Sorrento, abitata da gente dura, difficile, sebbene rassicurante. La madre è talvolta malata, e anche lei si scopre spesso turbata da problemi di cuore, una piccola malformazione che le procurerà tanti fastidi e che sarà la causa della sua morte che avverrà nel lontano 1998, quando ormai è una scrittrice consolidata, e sicuramente una tra le voci più belle della letteratura del secondo Novecento. Si pensi solo alla raccolta di racconti de “Il mare non bagna Napoli” o al “Cardillo addolorato”, a “Il porto di Toledo” o a “Alonso e i visionari”.

Per tornare al libro, – a questo piccolo, energico e vibrante volume a cura di Monica Farsetti con una nota biografica di Stefano Pezzoli su Marta Maria Pezzoli – scopriamo con sorpresa una passeggiata dell’Ortese con Alfonso Gatto a Firenze, e di come lo racconta alla sua amica: Mattia, quello che tu vedesti con me sul Lungarno era lui. Non volevo mai dirtelo – benché tu lo sapessi – mi pareva che tu, guardandolo coi tuoi occhi avvezzi all’altro, me lo avresti spinto fra le cose di questa terra”. L’Ortese aveva già confidato a Mattia in una lettera del 19 marzo 1941 di aver inviato una lettera a Gatto che “scrive delicati articoli sul Mattino”, dove chiede d’incontrarlo. “Chissà se Gatto mi risponderà di sì: potrebbe ad alcuni parere una cosa sconveniente. Tu mi conosci, Mattia, sai per quanto nero io passi a volte: spero che questa persona mi possa fare non troppo, ma un po’ di bene”.

L’Ortese aveva già scritto “Angelici dolori” libro di conturbante eccentricità, scrive la curatrice, e libro molto caro a Mattia, alla quale aveva provocato una forte identificazione con la protagonista. Mattia ama la scrittura dell’Ortese e ha una predilezione per Katherine Mansfield condivisa con la sua amica. L’Ortese è una devota della scrittrice neozelandese come pure dello scrittore danese Andersen. Si pensi quanto, quest’ultimo, abbia potuto influire su quel libro anomalo dell’Ortese che è L’iguana. I rapporti, come si capisce subito, sono anche o forse soprattutto letterari. L’Ortese non smette mai di incitare alla scrittura la sua giovane amica e di manifestarle apprezzamenti per alcune poesie che Marta Maria le manda. Tuttavia, a spiccare, a innalzarsi è sempre il linguaggio, nonostante gli interessi comuni, le irrequietezze giovanili di entrambe, come anche le vicende personali e familiari, gli affetti. O anche una sorta di malsana curiosità o pudore che sempre avviene quando si entra in “altre” intimità. Una scrittura vigorosa, quella dell’Ortese, semplice e appassionante.

Una scrittura lacerata e lacerante, imprudente e compassionevole. Una scrittura di un candore inaudito. Slancio visionario e responsabilità morale. “Non ho altro obbligo che scrivere”. Nondimeno la scrittura, “questa condanna” ha zone di gioia celesti. Il tempo le darà ragione. Anna Maria Ortese onorerà il suo talento e la sua tenacia regalandoci libri audaci e di fiammeggiante bellezza. A riprova che la letteratura autentica non è svago ma impegno nella sua legge più efferata che è la scrittura.

[Anna Maria Ortese, Vera gioia è vestita di dolore, Adelphi, Lettere a Mattia, pagg. 160]

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