Erano gli anni ’80, la camorra spargeva il sangue delle sue vittime per le strade di Napoli, ma non solo, e non si preoccupava di
nascondere le proprie “azioni punitive”, imbracciando armi ben più vistose di quelle odierne, ma ugualmente pericolose. Don Antonio Riboldi fu il primo a ribellarsi a quella carneficina e la sua potente onda di legalità travolse tantissimi giovani, coinvolgendo anche politica e magistratura in quelle che furono le prime manifestazioni contro la criminalità organizzata in Italia.
Pietro Perone, giornalista napoletano e caporedattore de Il Mattino, era uno dei “ragazzi” di Don Riboldi e quegli anni li ha vissuti in prima fila, da attivista e poi come cronista. Attraverso il suo lavoro, mosso da una forte passione, ha raccontato quell’onda di legalità e giustizia che, in qualche modo, cambiò la storia dell’Italia. Dopo quarant’anni, Perone ha voluto rinnovare il ricordo di quell’esperienza per tramandare la storia di Don Riboldi alle nuove generazioni. Lo ha fatto con un libro: “Don Riboldi. 1923-2023. Il coraggio tradito”, edito da San Paolo Edizioni, che rappresenta un vero e proprio viaggio nel passato e un volume necessario attraverso cui l’autore si pone l’obiettivo di salvare un pezzo fondamentale della memoria collettiva di questo Paese.
Qual è il motivo che l’ha spinta a scrivere questo libro?
Prima di tutto la volontà di tirare fuori una storia che ormai ha quarant’anni e di cui si stava perdendo la memoria. Don Riboldi è stato il padre della lotta alla camorra: nella società civile nessun altro, prima di lui, aveva lanciato una sfida aperta alla criminalità organizzata. Negli anni ’80 era un problema ad esclusivo appannaggio dell’ordine pubblico, la politica di quel tempo negava fosse un problema, limitandosi a pensare “tanto si uccidono tra di loro”. Ecco, tutto questo si stava perdendo ed è un fatto che ritengo molto grave anche perché la tv ricorda e inventa, periodicamente, personaggi che fanno riferimento a quella storia. Ho scritto questo libro nella speranza da un lato di salvare la memoria e dall’altro di far conoscere ai tantissimi che non lo conoscono che qui nel Mezzogiorno ci fu qualcuno, appunto Don Riboldi prima di tutti, che si ribellò allo strapotere della camorra.
Di che libro si tratta?
È un libro di ricostruzione storica. Ho cercato di ritrovare riferimenti di cronaca dell’epoca, luoghi e date delle manifestazioni degli studenti e testimonianze di come si è evoluta quella parte di storia. Tra i protagonisti di quella stagione, ho cercato di ritrovare i dettagli che non ricordavo neanche io più alla perfezione e se non fosse stato per i giornali dell’epoca sarebbe stato impossibile ricostruire tutto.
Un libro per rinnovare la memoria
e tramandarla ai più giovani
Si tratta, dunque, di un viaggio nel passato dal punto di vista dell’immaginario collettivo, ma anche personale.
Dopo quella esperienza iniziai quasi subito a fare il giornalista, sono rimasto sul fronte. All’inizio mi occupavo quasi solo di cronaca e cronaca nera per cui in qualche modo quella battaglia per me continuava in questa direzione: nel riferire e raccontare quali fossero i responsabili dalla redazione di Castellammare del Mattino, proprio dove ho avuto occasione di seguire l’apertura dell’inchiesta che ha portato alla condanna di mandanti e killer responsabili del delitto di Siani. Ci sono state molte sconfitte da parte della giustizia e solo dopo dieci anni si è arrivati ad un punto, prima nessuna verità giudiziaria era stata svelata. Il mio libro si pone l’obiettivo di rinnovare la memoria per ricominciare a raccontare questa storia. È un libro rivolto ai genitori per raccontare questa storia ai propri figli. Purtroppo, oggi se ne parla sempre meno: la criminalità organizzata è diventata un elemento strutturale della nostra società.
Quali sono i rischi di questa deriva?
Il principale rischio a cui si va incontro è la mentalità secondo cui non ci sia niente da fare, ci facciamo i conti di volta in volta, questo, in parte, è lo stesso ragionamento degli anni ’80. Ma oggi ci sono molte più leggi, molte più armi che però spesso non vengono usate. Pensiamo allo scioglimento dei comuni per infiltrazioni mafiose: su questo fronte stiamo tornando ai livelli degli anni ’90, quando fu varata la misura che ne imponeva lo scioglimento e ci fu una vera e propria impennata. Ma il problema è che un sindaco camorrista non dovrebbe proprio essere eletto, non estrapolato quando ci si rende conto che lo è.
Oggi la camorra è più pericolosa
I criminali sono in giacca e cravatta
Quali sono le differenze tra la criminalità organizzata di ieri e di oggi?
La camorra degli anni ’80 era più sanguinaria e appariva più pericolosa, seminava terrore in tutta la Campania. Oggi non assistiamo più a questo tipo di guerra, ma non significa che si sia ridotta. Quella di oggi è un fenomeno nazionale, è ramificata ovunque: i grandi affari di camorra, mafia e ‘ndrangheta avvengono a nord. È un fenomeno che si nasconde molto meglio. Gli esponenti della criminalità organizzata oggi sono in giacca e cravatta, sono proprietari di imprese, imprenditori e questo la rende ancora più pericolosa.
Che ruolo ha la politica in tutto questo?
La disattenzione della politica da quindici anni a questa parte riguarda tutti i tipi di governo e questo ha portato all’attuale situazione di stasi e indifferenza: mafia e camorra stanno lì e si cerca di reprimerle all’occorrenza, ma senza eliminare alla radice i mille legami che esistono. La Direzione investigativa antimafia nella relazione inviata al Parlamento sulla camorra ha sottolineato che ormai essa è inserita in ogni settore vitale della società, del mondo economico, della politica e dell’imprenditoria. Questo non è normale. Negli anni ’80 furono gli studenti e un vescovo a scandalizzarsi e questo scandalo divenne contagioso, provocando una mobilitazione che travalicò gli studenti e la chiesa e coinvolse operai, politica e magistratura. Purtroppo, quello scandalo nessuno riesce più a suscitarlo anche rispetto a questioni efferate come il delitto di un diciottenne.
Cosa pensa della criminalità organizzata che viene raccontata attraverso i social dagli stessi protagonisti che ne fanno parte?
È colpa anche dei mass media che hanno esaltato queste malefatte. Oggi i diretti protagonisti la raccontano da soli attraverso i canali social e raggiungono milioni di follower. Andrebbero raccontate meno malefatte dei camorristi e di più le azioni di chi vuole combatterli. Sappiamo troppo spesso cosa fanno le gang di Secondigliano, ma se si fa un dibattito sulla lotta alla camorra non se ne parla e non se ne sa nulla.
Troppe fiction sulla mafia
trasmettono messaggi sbagliati
Negli ultimi anni, sono nati molti prodotti televisivi che raccontano queste realtà. Lei cosa ne pensa?
Chi fa le fiction fa il proprio lavoro, su questo non ci sono dubbi. Ma risulta strano che da alcuni anni si fanno solo fiction su camorristi e mafiosi e meno su chi le combatte e le ha combattute. L’idea, il messaggio di fondo raccontato in queste fiction attraverso i personaggi che sono dei ragazzini è che la propria vita è così breve che si può vivere al massimo durante quella breve esistenza, l’importante è commettere cose che ti fanno passare alla storia. I protagonisti di Mare Fuori, ad esempio, non vedono grandi orizzonti di vita o finiscono sparati o arrestati possono fare quello che vogliono. La cosa più grave, secondo me, è che l’assessore al Turismo del Comune di Napoli ha esaltato tutto questo a modello di riferimento perché favorisce il turismo. Ma i turisti, in questo modo, conoscono il peggio di questa città, i luoghi in cui si narrano vicende di vendette di sangue. È questo modo di fare che risulta estremamente sbagliato e pericoloso.