“Homo socius” per appartenere e convivere nella giustizia

A colloquio con Emiliana Mangone, docente dell'Università di Salerno: dalla solidarietà ad una "sociologia della speranza", l'interessante percorso della studiosa tendente a costruire un sistema culturale che leghi le aspirazioni dei singoli alla socialità, con l'obiettivo della coesione e di una concreta giustizia sociale

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Soltanto formazione, studio e cultura potranno condurre i giovani fuori da disagi e malinconie sociali
La professoressa Emiliana Mangone, docente presso Unisa

Interrogarsi sui temi che da tempo caratterizzano le strutture sociali moderne e contemporanee per aprire nuove strade di riflessione, ma anche tentare di porre le basi per delineare e creare nuovi spazi di ricerca. Si muove in tal senso il lavoro e lo studio di Emiliana Mangone (sociologa e docente di Sociologia dei processi culturali e comunicativi presso l’Università degli Studi di Salerno). Dal concetto di “solidarietà sociale” ad una vera e propria “sociologia della speranza”, dalla “narrazione della violenza contro le donne” alle immagini del femminile nel Mediterraneo (solo per rimandare ad alcune sue ricerche), ciò che maggiormente colpisce nel lavoro della Mangone è un duplice aspetto: da un lato, la ricchezza delle tematiche trattate ed esplorate, dall’altro, la presenza costante di un macro-tema – quello della cultura come elemento fondante della società – che le tiene insieme e ne favorisce l’interpretazione attraverso un’unica visione. Il tutto dentro un respiro internazionale che è ulteriore punto di forza della nostra autrice che abbiamo incontrato in questi giorni.

Solidarietà  in rapporto alle dimensioni

di identificazione e responsabilità

 Uno dei suoi più recenti lavori si intitola “Solidarietà sociale”. Ci piacerebbe iniziare questa intervista esplorando questo concetto alla luce dei continui e più recenti mutamenti della società. Che cosa rappresenta nella società contemporanea la solidarietà sociale e come si declina nei differenti piani collettivi e individuali? 

Sì, questo è il mio ultimo libro in cui ho cercato di esplorare, con un linguaggio che fosse accessibile anche a coloro che non sono cultori delle scienze sociali, le dimensioni e le caratteristiche della solidarietà che non a caso definisco con l’aggettivo “sociale”. Quest’ultimo aggettivo diventa l’elemento chiarificatore dell’idea di solidarietà in quanto, derivato dal termine latino socius, è riferito alla vita dell’uomo che è membro di una comunità nella quale ha, o almeno dovrebbe avere, sostanziale diritto di parità rispetto agli altri membri. L’homo socius, che è l’oggetto di studio della sociologia, è l’unica forma di uomo che può favorire lo sviluppo armonico della società perché si caratterizza per essere contemporaneamente in una condizione di reciproca influenza e interdipendenza con le molteplici realtà socioculturali della società. E questo è vero sia se consideriamo l’individuo come singolarità sia se lo consideriamo come collettivo, pertanto, possiamo dire che la solidarietà è caratterizzata dalle dimensioni dell’identificazione, dell’appartenenza e della responsabilità, ed è un modo efficace per dare soluzioni a problemi di convivenza e di giustizia sociale.

La pandemia ha soltanto accelerato

trasformazioni che erano già in atto

Le trasformazioni culturali e sociali negli ultimi anni hanno subito una forte accelerazione ed amplificazione, soprattutto a causa del contesto pandemico e post-pandemico che abbiamo attraversato. Quanto influirà (e sta influendo) il covid nel processo relazionale e di formazione identitaria, soprattutto dei giovani e giovanissimi? 

Credo che la pandemia, di cui tutti noi abbiamo fatto esperienza sia stata solo un fattore accelerante di una trasformazione che era già in atto e riguardava le forme e i modi di costruire prima le interazioni e poi le relazioni significative tra due o più soggetti. Questo, però, dal mio punto di vista vale per i giovani come per i meno giovani con le dovute differenziazioni. Con la grande diffusione dei mezzi di comunicazione, a partire dal telefono che da fisso è diventato mobile e ci rende raggiungibili H24, sono cambiati i modi di rapportarsi agli altri. Sembra quasi che si abbia paura dell’altro e si preferisca avere un mezzo che possa ridurre o eliminare queste paure, si pensi a come è cambiato il corteggiamento o le pratiche sessuali che sono due vissuti emblematici per gli esseri umani. Sembra che stia venendo meno, sempre di più, il confronto aperto con l’altro (dove altro non è solo l’immigrato, ma anche molto banalmente il vicino di casa) e questo impedisce non solo la costruzione della propria identità personale ma anche quella culturale e sociale. Il mancato confronto con l’altro distingue un Io e un Tu, e un Noi da un Loro ampliando le distanze e risaltando in negativo le differenze che non sono interpretate come potenzialità di crescita comune ma come un qualcosa da evitare e, pertanto, si tende sempre più a eliminare le differenze orientando la società verso l’omologazione.

Il futuro immaginato dai giovani

è a breve termine, e l’ottimismo crolla

Tra le emergenze sociali su cui la sociologia sta riflettendo negli ultimi decenni c’è, purtroppo, il problema dell’aumento dei suicidi tra i ragazzi. Ansia, depressione, attacchi di panico sembrano rappresentare una costante non solo nei Millennials, ma anche nei giovanissimi della Generazione Z e le cause principali di tali scelte. Possiamo parlare di “nuove fragilità” alla luce della nuova società digitale e post-pandemica in cui viviamo? E come si può interpretare e cercare (almeno in parte) di porre rimedio ad un problema per cui il peso della responsabilità rimane in bilico tra le vecchie generazioni “usurpatrici” di opportunità e le nuove generazioni che “soccombono dinnanzi alle difficoltà”? 

Mi permetto di dissentire su questa affermazione, la sociologia in realtà non sta riflettendo sul problema dell’aumento dei suicidi o sul suicidio in generale. Questo fenomeno è stato totalmente abbandonato dagli studi scientifici sociologici nonostante sia stato un oggetto tipico di studio di questa disciplina se solo ricordiamo Émile Durkheim uno dei padri fondatori della disciplina con il suo testo orami diventato un classico, Il Suicidio. Data questa chiosa, non c’è dubbio che il suicidio o anche azioni lesioniste, che non portano alla morte e che sono perpetrate da giovani e giovanissimi, sono un problema serio. Io non credo, però, si possa parlare di “nuove fragilità”, non tutti sanno che la categoria dei giovani è stata considerata dalle Nazioni Unite già qualche decennio fa tra le categorie soggette a “vulnerabilità sociale”, vulnerabilità che ovviamente si è accentuata con la pandemia e nella fase post-pandemica. Penso che si debba restituire il futuro ai giovani, lei dice bene c’è un problema di responsabilità tra generazioni, ci sono le generazioni che hanno preceduto i Millennials e la Generazione Z che hanno vissuto come se le risorse fossero inesauribili e i diritti tutti acquisiti senza pensare alla difesa di entrambi per le generazioni future. Questo credo sia il problema che associato a una società che richiede e si aspetta performance elevate, crea un mix di idee che può trasformarsi in un fattore scatenante di azioni negativi. I giovani di oggi riescono a immaginare un futuro che è a breve termine a differenza delle generazioni precedenti che immaginavano un futuro e medio lungo termine, e questo credo li lasci senza speranza intesa questa come spinta all’azione verso il futuro fino a spingerli verso un gesto estremo come quello del suicidio.

Tra i temi da lei trattati c’è quello che riguarda il Mediterraneo come “spazio sociale” e non più come “cimitero all’aria aperta” – come lo ha definito in una intervista precedente. Pochi giorni fa l’ennesima tragedia al largo della Grecia. Qual è la strada da intraprendere per trasformare il Mediterraneo da luogo geopolitico a spazio culturale e sociale?

Io continuo a pensare al mare Mediterraneo come a uno “spazio sociale” nonostante continuano a susseguirsi centinaia di vittime, il Mediterraneo non è un luogo di confine è un luogo di incrocio e incontro di culture. Il Mediterraneo è stata la culla di civiltà antichissime in cui la valorizzazione delle differenze ha costituito un punto di forza per il mantenimento della pace e dove il colore della pelle non costituiva elemento di discrimine. Non possiamo immaginare che in un mondo che ha globalizzato la finanza, le culture e sottolineo che questo termine deve essere declinato al plurale, si possano considerare a “compartimenti stagni”. I processi di interculturalità devono necessariamente svilupparsi, pur non omologando o assimilando gli uni agli altri, se si vuole pensare a società future dove si possa convive nonostante le differenze del colore della pelle, delle fede religiosa, degli orientamenti sessuali, etc., L’interculturalità deve riconoscere le differenze e rispettarle, ma tutti devono essere messi nelle condizioni di poterle comprendere per renderle dei punti di forza e non di debolezza. Io spesso con i miei studenti utilizzo la metafora del puzzle, i processi di integrazione come si devono considerare come un puzzle in cui tutte le tessere trovano una loro dignitosa collocazione per dare vita a una splendida immagine, e nel nostro caso la splendida immagine è una società coesa e pacifica.

Il valore esistenziale della speranza

per integrare il concetto di realtà

Insieme a Guido Gili, ha di recente scritto un saggio che intende porre le basi per delineare una “sociologia della speranza”. Riprendendo una delle domande a cui il lavoro vuole rispondere: come si ripercuote, dal punto di vista sociologico, la speranza sulla vita collettiva e individuale delle persone?

Come già accennato in precedenza la speranza, non intesa in senso religioso, è ciò che spinge gli individui a guardare verso il futuro e ad agire. La speranza spinge ad agire proprio perché si fonda su una dimensione temporale che è proiettata a una prospettiva futura e si fonda sulla presenza di un qualcosa, che è oggetto stesso della speranza, e che gli individui vogliono raggiungere. La speranza è, dunque, qualcosa che completa la realtà, guardando al futuro si sottrae alla logica dell’hic et nunc per rientrare nella logica del possibile e si presenta come la rappresentazione di un nuovo ordine sociale in cui l’esperienza individuale e collettiva diventa il terreno per la “coscientizzazione” come affermato da Paolo Freire cosa che permette la promozione di una “rivoluzione culturale dialogica” che può portare alla riduzione delle forme di oppressione.

Più giustizia e coesione sociale

solo con l’apporto della cultura

Cultura è il tema, il concetto, la parola che rappresenta il file rouge del suo lavoro di ricerca. Che peso ha la cultura nella società contemporanea e cosa significa costruire una cultura solida che possa rappresentare la base di una società diversa da quella di oggi (probabilmente migliore)? 

Il concetto di cultura è probabilmente il concetto sociologico che, dalla sua nascita come concetto scientifico avvenuta alla fine del XIX secolo, ha ricevuto più definizioni in assoluto. Al di là di questo, però, la cultura è l’elemento della società che forse maggiormente influenza il modo di essere e di fare degli individui. Con tutte le sue componenti, valori, norme, ideali, credenze, etc, infatti, permette la costruzione delle identità attraverso il processo di trasmissione e socializzazione. Identità che nella sua duplice costituzione dell’Io, aspetti della personalità, e del Me, aspetti rivolti al sociale, come chiarito da Mead, consente la definizione del Sé di ogni individuo. E il Sé, che coniugando all’interno di un sistema culturale gli aspetti individuali con le aspirazioni dei singoli individui e la socialità, che permette la condivisione dei valori comuni della cultura che conseguentemente garantiscono una società con una maggiore coesione sociale e garanzia di giustizia sociale.