Giorgio Sica, si fa silenzio lungo la via di vetro

Il poeta, autore di tre libri di versi, è docente universitario di Letterature Comparate e ha pubblicato importanti testi di critica letteraria. Collabora come saggista, recensore e traduttore con riviste italiane e internazionali

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Giorgio Sica insegna Letterature Comparate presso l’Università di Salerno.
Ha pubblicato tre volumi di poesia: L’altra stanza della voce (Guida, 2010, con prefazione di Dante Maffia); Versi di mare e d’orto (Oèdipus, 2013, con postfazione di Paolo Lagazzi); Breviario per Vagabondi (Ladolfi 2017, con postfazione di Mariano Baino). Ha partecipato alle antologie Cinquanta Foglie. Tanka giapponesi e italiani in dialogo, a cura di Paolo Lagazzi (Moretti & Vitali, 2016); e Napolis. 42 poeti cantano la città di Partenope, a cura di Vincenzo Salerno (Marlin, 2023).
Ha tradotto Il libro sul nulla, capolavoro del poeta brasiliano Manoel de Barros (Oèdipus, 2014) e, sulla rivista Trivio, un’antologia di Paulo Leminsky.
Ha pubblicato, inoltre, i volumi di critica letteraria Il vuoto e la bellezza. Da Van Gogh a Rilke: come l’Occidente incontrò il Giappone (Guida, 2012) e Una catena tra Oriente e Occidente. Octavio Paz, la poesia giapponese e il Renga di Parigi (Oèdipus, 2014). Collabora come saggista, recensore e traduttore con riviste italiane e internazionali.

Maglietta

Questa è l’ultima volta che dormo
con la maglietta a strisce bianche e verdi
che mi hai regalato
quel giorno di sole a San Paolo
sotto un pergolato pieno d’uva
destinata a diventare
un vinaccio brasiliano.

Amo davvero questa maglietta –
lei è te e quel giorno di sole –
ma ormai ha un grosso buco sulla spalla
e il collo sfilacciato e capovolto
distrutto dal troppo uso e
dagli artigli delle tue mani.

Anche se tu accarezzavi le strisce orizzontali
con le tue lunghe dita color latte,
anche se la indossavi per dormire
per impregnarla di notte del tuo odore
e farmi di giorno tuo prigioniero,
adesso dovrò buttarla via.
Le voci di generazioni
di donne della mia famiglia
mi intimano di farlo.

Tu sei andata via.

E poi non ho più la forza
sufficiente a sostenere
lo sguardo sdegnato della portiera
quando mi dimentico di averla addosso
(o forse fingo?)
e scendo incurante in cortile
a spostare la macchina lasciata
la sera prima ubriaco
nel posto del vicino.

 

A mio figlio Teo, delfino

Ogni volta che ti accompagno sul bordo
della piscina sei felice come una minima divinità
marina che fa ritorno al suo elemento.
Fingi allora di saper nuotare
neghi i braccioli e ti tuffi senza paura
sprizzando schegge luminose,
e un’aura d’acqua t’intrasparenta il riso.
Poi quando mi afferri
giusto un attimo prima di affogare
i tuoi occhi si spalancano di gioia
e di orgoglio. Ti stringo forte, allora,
e tu mi chiedi di lanciarti
là, lontano sul fondo
là lontano
più lontano più a fondo
per donarmi di nuovo
la gioia di vederti emergere
salvo e un po’ più uomo
dalla pelle di cristallo dell’acqua.

L’incompiuta

Mentre tornavo a casa
scrivevo dei versi stupendi
roba davvero bella
li limavo mentre li sussurravo alla luna
ai visi baciati dalla brezza
di questa sera d’estate
(Visi ignari della fortuna
di incontrare un poeta).
Era probabilmente una delle mie poesie
più riuscite, qualcosa che tu
avresti ricordato e forse letto ad alta voce
e solo a chi davvero ami.

Ma a casa avevi lasciato di nuovo
l’uovo sodo sul fuoco
(è il terzo pentolino che brucia
per evaporazione)
e i bimbi piangevano
come prefiche siciliane e il più piccolo
aveva appena vomitato sul tavolo.
Tu eri troppo stanca per pulire
e così ho preso lo straccio.
A poco a poco i versi sono spariti
con le macchie di frullato sul legno.

 

Dal dentista

Quando aspetti seduto sul lettino
che il dentista ti dica di stenderti
i tuoi occhi neri come le ali del corvo
si spalancano a cercare i miei.
Cinque carie a quattro anni
non è un bell’affare,
nessun abuso di cioccolato
merita questa punizione.
Ma anche questa volta
sosterrai lo stridere terrificante
del trapano
il sinistro brillare del faretto
il collutorio che brucia nella gola
e quella mano grande e pelosa
che si avvicina minacciosa
al tuo minuscolo viso.

E anche questa volta
terrò le mani tremanti in tasca
per evitare di prendere le tue
(il dentista ha detto che non posso)
e stringerò i miei denti senza carie
arricciando la fronte
e guardandoti con occhi lucidi di orgoglio
mentre mi chiedo da chi hai ereditato
questa splendida calma
che fluidifica il sangue
che torna a scorrermi nelle vene.

Finale

Quando di nuovo mi chiederai il senso
Dei gesti strambi, matti, i passi rotti
Lungo la via di vetro che ogni giorno
Per te penso, e si disfa nella mente
come un fiore di fuoco dopo i botti.

Resiste nel contorno l’immagine
Di ciò che sbocciando già scompare.

Si fa silenzio, non ho altre parole
da offrire alla tua assenza,
solo la litania fredda dei raggi
che innerva di timido sole i rami
nudi che presto si sfaldano d’ombra.

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