Giorgio Agamben, la verità non è più un nome ma un discorso

Contemporaneo è anche chi, dividendo e interpolando il tempo, è in grado di trasformarlo e di metterlo in relazione con gli altri tempi, di leggerne in modo inedito la storia, di “citarla” secondo una necessità che non proviene in alcun modo dal suo arbitrio, ma da un’esigenza cui egli non può non rispondere. Tutto questo e molto altro nell'opera La mente sgombra

Tempo di lettura 4 minuti

Percepire nel buio del presente questa luce che cerca di raggiungerci e non può farlo, questo significa essere contemporanei. Per questo i contemporanei sono rari. E per questo essere contemporanei è, innanzitutto, una questione di coraggio: perché significa, essere capaci non solo di tenere fisso lo sguardo nel buio dell’epoca, ma anche di percepire in quel buio una luce che, diretta verso di noi, si allontana infinitamente da noi. Cioè ancora: essere puntuali a un appuntamento che si può solo mancare. Giorgio Agamben, La mente sgombra, Einaudi, pag. 298. Solo qualche riga più avanti e il filosofo, classe 1942, continua: contemporaneo è anche chi, dividendo e interpolando il tempo, è in grado di trasformarlo e di metterlo in relazione con gli altri tempi, di leggerne in modo inedito la storia di “citarla” secondo una necessità che non proviene in alcun modo dal suo arbitrio, ma da un’esigenza cui egli non può non rispondere. Tra i più importanti intellettuali viventi, Agamben, ci offre una riflessione sul contemporaneo di una pregnanza non irrilevante se si considera non tanto l’acume metaforico, quanto il rapporto che “l’essere contemporaneo” trattiene ineluttabilmente sia con il tempo sia con l’agire ma ancora di più con un’ontologia dell’assenza. Se l’uomo non può che mancare all’appuntamento con la luce, ciò significa che la sua entità fondamentale si basa necessariamente su una mancanza, un’insufficienza, un’inabilità, un’imperfezione. L’uomo, in breve, è mancante. Niente di nuovo, ovviamente, tuttavia, è proprio ciò che gli permette di avanzare quell’apparente paradosso del tempo e di farlo rivivere come espressione di un passato in ombra di luce e di archè. Arcaico è strettamente legato con l’origine, con la domanda essenziale del principio che è luce sopraffina. Chiarore di tutte le luci che è l’oscurità. Agamben cita Michael Foucault, quando scrive che le indagini storiche sul passato sono soltanto l’ombra portata delle riflessioni teoriche sul presente. Poi Walter Benjamin: “l’indice storico contenuto nelle immagini del passato mostra che esse giungono alla leggibilità solo in un determinato momento della storia”. Agamben perviene così allo sbocco, che solo la nostra capacità di dare ascolto a quell’esigenza e a quell’ombra ci potrà permettere di comprendere quell’essere “contemporaneo” che inevitabilmente ci appartiene e ci seduce nel suo doppio contatto di tempo presente e di relazione imprescindibile con le figure dei testi o dei documenti del passato. Così, inequivocabilmente, egli ci dice che solo l’attenzione verso quell’ombra imprescindibile che sempre ci attraversa e ci seduce ci rende partecipi del mondo e della sua eccedenza. Come se il contemporaneo avesse preso altre pieghe. Come se il contemporaneo avesse smarrito il suo senso, la sua oscurità essenziale: l’inattuale. È possibile, infatti, e questo libro di Agamben ne è la prova, che non si tratti di conservare un sistema, una prassi di cose intangibili e mute, scure, quanto liberare uno spazio affinché il tutto possa aprirsi e continuare a parlarci. Una mente sgombra, allora, che possa di nuovo interloquire con la profanazione, la nudità, il fuoco, il racconto. Creazione e salvezza di un corpo glorioso: il Testo. O tutti i testi di una scrittura che è annotazione di un tessente impossibile. E di un’assenza. Il libro, allora, raccoglie possibilità, occasioni, avvenimenti che si declinano in una scrittura che ha perso tutte le sue carte di equivalenza ed è diventata, insieme, filosofia e letteratura, divagazione e scheda filologica. Trattato di metafisica e nota di costume. “La mente sgombra”, difatti, raccoglie testi che sono il continuo di un riflettere instancabile e “inattuale” cui il filosofo e studioso Agamben ci ha abituato da anni. ­– Voglio solo ricordare gli ultimi titoli pubblicati per Einaudi: La follia di Hölderlin; Pinocchio; L’irrealizzabile; Filosofia prima filosofia ultima; e, soprattutto, ci sarebbe l’edizione integrale di Homo sacer per Quodlibet, opera cardine di Agamben, per chiunque volesse approfondirne il pensiero. – Tornando, invece, a La mente sgombra, ci troviamo di fronte testi che sono stati presentati separatamente. Ora vedono la luce tutti insieme, ovviamente con qualche cambiamento o intere modifiche. In ogni caso, il punto di fuga verso cui convergono questi “esercizi” è una nuova idea della politica e dell’agire umano, inteso come una soglia in cui teoria e prassi, arcaico e contemporaneo coincidono senza residui, e in cui soltanto può situarsi quel “dire” che è linguaggio illeggibile del vero. Verità, scrive Agamben che non è più un nome, ma un discorso. Perché se non si può parlare più in nome di un Dio, non si può più neanche farlo in nome di una Verità. L’uomo ha tolto la sua maschera e ha perso la sua identità in nome di una riconoscibilità con cui non può in alcun modo assimilarsi. Legato ai suoi dati antropometrici, al suo DNA, ai suoi dati puramente biologici, l’uomo ha smesso di riconoscersi, ha perso la sua maschera che lo identificava come persona. Ridotto a un numero, si è rubricato simile a un deportato di Auschwitz. Tuttavia, l’uomo, scrive Agamben, è chi sopravvive indefinitamente all’umano. Se vi è sempre ancora umanità di là dell’inumano, allora un’etica deve essere possibile anche nell’estrema soglia post storica in cui l’umanità occidentale sembra essersi arenata, insieme ilare ed esterrefatta. Un’ultima nota includerebbe questi testi in quella ragione insopprimibile della speranza. In verità, si tratta di quella vocazione di un testo a essere “parola del Regno”. Comprendere che la nostra dimora è nella lingua, l’unica cosa che ci permette di tenere le cose vicine. Non è un caso che l’insegnamento di Heidegger abbia persuaso Agamben sin dai seminari di Le Thor in Provenza tenuti dal filosofo tedesco tra 1966 e il 1968, la cui partecipazione ed esperienza di Agamben sono state da lui raccontate in quel prezioso volumetto che è “Il tempo del pensiero”, edito da Giometti&Antonello. Ultima nota, veramente ultima, è il suggerimento di dare attenzione a due capitoletti di “La mente sgombra”. Uno ha il titolo “Sulla difficolta del leggere”, l’altro è “Dal libro allo schermo. Il prima e dopo del libro”. Sì, forse, si tratta di letteratura, perché si parla di Manganelli, di Calvino, di Pasolini. E tuttavia, si parla di ombre. Di oscurità. O dei libri. Del Libro. Quello stesso libro che permette sempre un capitolo successivo. O, almeno, così ci auguriamo che possa essere l’eternità.

 

Giorgio Agamben, La mente sgombra, Einaudi, pag. 298

Previous Story

Mastriani, Treccagnoli e l’eterna storia di Napoli

Next Story

Thomas Bernhard, quando dei maestri non si può fare a meno