Enzo e Paolo Jannacci, la complice intesa al Semaforo della vita

Così diversi, padre e figlio, eppure uguali nell’ebbrezza della passione musicale totalizzante, entrano nell’umanità, nella poesia e nei loro flussi. Da questi flussi, che il figlio descrisse con cura nella biografia dedicata al padre, bisogna lasciarsi trasportare. È una felice esperienza che non manca di momenti divertenti

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Paolo ed Enzo Jannacci insieme, tanti anni fa

“Sono un ateo imprudente, talvolta credente. Se il Nazareno tornasse, ci prenderebbe tutti a sberle e ce lo meritiamo, però avremmo tanto bisogno di una sua carezza”. Si era nel 2009 ed Enzo Jannacci volle concludere così un’intervista per il Corriere della sera. Era già seriamente ammalato e quattro anni dopo morì, all’età di 77 anni. Morì davvero anche, se per quanti scherzi aveva fatto nella sua vita, sarebbe stato anche capace di morire per finta. E pensare che era un cardiochirurgo, che di vite ne aveva salvate anche parecchie. Aveva allenato la sua manina imparando da Christiaan Barnard, nella cui equipe in Sudafrica volle andare a perfezionarsi. E poi cantautore, attore, cabarettista, polistrumentista. Come se la sua giornata valesse un numero doppio o triplo di ore, tali e tante erano le cose che faceva, tipo ballare il tip tap gareggiando con Tognazzi. Erano tutti e due bravissimi, li chiamavano i claquer.

Gli aneddoti su di lui non si contano. Accade che un giorno Enzo chiama casa Fo. Risponde Franca Rame e lui chiede di Dario. A quel punto si sente la voce di Franca strillare al marito: “Dario corri al telefono. C’è l’Enzo che si capisce tutto quello che dice!” Si vede che quel giorno la lingua di Enzo aveva svoltato per un’altra strada, e così fu per un po’ di tempo. A coloro che si preoccupavano, il figlio Paolo diceva che non era niente di grave, solo che Enzo in quel periodo era diventato un po’ più lento. Amava tanto vivere, Enzo, ed io credo che la sua vita se la sia spesa bene, insieme a tutti quegli amici coi quali un po’ costruiva canzoni musica e monologhi, un po’ scherzi goliardici e supercazzole. Amici come Dario Fo, Giorgio Gaber (che per farlo arrabbiare lo chiamava cialtrone), Cocki Ponzoni, Renato Pozzetto, Felice Andreasi, Paolo Rossi, Umberto Eco, Massimo Boldi, solo per citarne alcuni.

La sua personalità, e di conseguenza le cose che faceva, erano di spessore, ma anche piene di ironia e leggerezza, e siccome sapeva affascinare il pubblico aveva un bel seguito ed entusiaste tifoserie. Su di lui sono state scritte molte biografie, ma di certo la più intrigante è quella scritta dal figlio – unico – Paolo, anche lui musicista sopraffino (nonché direttore d’orchestra). Il libro s’intitola Aspettando al semaforo.

Sull’intenzione di questo libro, Paolo afferma: “Ho voluto anch’io scrivere una sorta di biografia su mio padre, soprattutto nel senso di uno scritto che desse ordine, e raccontasse in maniera assolutamente pulita la sua umanità. Per lui la musica era sacra, proprio come la medicina. Non ha vissuto tanto a lungo affinché io potessi abbracciarlo vegliardo, ma abbastanza per fare insieme un sacco di cose”.

La biografia di Enzo scritta (con amore) dal figlio Paolo Jannacci

In Aspettando al semaforo Paolo pone l’accento sulla grande umiltà di suo padre, forse  (anzi no forse), la sua migliore dote, e l’interesse per i giovani. Soprattutto quelli più sbandati ed emarginati, come i tossicomani, che voleva a tutti i costi salvare. Per lui ogni cosa esprimeva musica, e la esprimevano specialmente i palcoscenici, dove si cimentava con  tanti strumenti.

Secondo il figlio bene con: fisarmonica, organo, vibrafono e contrabbasso.

Sublime con: pianoforte e voce, voce voce voce.

Malissimo con: trombone a pistoni e batteria.

Ignobilmente, nonostante i tanti studi condotti, con la chitarra classica.

Suo insegnante di contrabbasso e pianoforte, il grande Franco Cerri, che Enzo chiamava papà. Con Paolo Conte, aveva un’amicizia elitaria. Paolo Jannacci riferisce che si chiamavano rispettivamente genio e poeta.

“Pronto… c’è il poeta? Qui è il genio”.

Di manica larga, Paolo, nel raccontare aneddoti. Come quella volta che c’era una serata divisa in due parti. La prima parte affidata a  Nunzio Gallo fu un successo. La seconda, affidata a un gruppo musicale con Jannacci, Celentano, Gaber ed altri, fu un tale fiasco che il pubblico iniziò presto a fischiare e lanciare monetine. Finì che dovettero battere la ritirata e di quella sera rimase loro addosso anche qualche cicatrice, dovuta a lanci particolarmente riusciti. Secondo Enzo, la colpa fu di Gaber, che temporeggiò nonostante la malaparata del pubblico. Quando lo sollecitavano a scappare, lui rispondeva: “Un Gaber non scappa mai.”

E cosa dire della milanesità di Jannacci (però quella delle periferie). Un fiumicello che canticchiando scorre nelle vene e poi finisce che s’ingrossa come una piena. Lui parla sente canta e respira milanese, con quella nebbia lì nelle pupille nel cuore e nelle gambe. È un po’ strano Jannacci, questo lo sanno tutti, eppure con la sua biostranezza lui intercetta il popolo dei tristi malinconici e disadattati più di chiunque altro. E il bello è che la gente che va a sentirlo, anche quando non lo capisce, perché dal caos dei suoi pensieri e delle storie che scrive, a un certo punto poi sbuca un nitore fatto di vita che pulsa, con un sangue che nelle vene di tutti è lo stesso. Eh già, le leggi della natura valgono uguale per tutti.

E poi, non c’è dubbio, il suo stupidarium è troppo divertente. Nel 1962 ci fu a Milano una rappresentazione teatrale in cui fu coinvolto anche Enzo. Si Chiamava Milanin Milanon, e i testi erano tutti rigorosamente in dialetto milanese. In mezzo ai suoi colleghi, tutti bravi, Enzo naturalmente si distinse. A quell’epoca non esistevano ancora le chitarre acustiche  amplificate, appese alla tracolla, ed Enzo si inventò di suonare una chitarra a mento, cioè mantenuta dal mento! Il risultato fu strepitoso, anche se rischiò una frattura.

Paolo nel suo libro afferma di non valere nemmeno lontanamente ciò che valeva suo padre, ma di essere riuscito, grazie alla forte disciplina e allo spirito organizzativo che lo contraddistinguono, a diventarne il produttore. Era il 1993. Da allora fecero insieme molti dischi. Ci furono anche periodi difficili, periodi di magra, in cui Enzo pensò di essere stato dimenticato, perché a fronte della critica che gli fu sempre favorevole, per le serate poco lo chiamavano. Si trovò, insieme alla moglie e al figlio, anche in serie difficoltà economiche, e subì l’affronto di uno sfratto da una casa che avevano abitato per vent’anni.

Le sue microstorie e il suo civismo sono di grande intensità narrativa, tant’è che un giorno Cesare Zavattini lo invitò a casa sua a Roma, e in quell’incontro gli disse: “Lei, finché sarà sempre così timido, non diventerà mai nessuno per gli altri… Ma sarà molto importante per me.” Non per niente Zavattini sosteneva che in Italia bisogna defurbizzare l’ambiente.

Per me la cosa più bella che ha raccontato Paolo Jannacci nel suo libro è la descrizione della faccia di suo padre colto a fissare una foto di famiglia. Era sera, ma la mattina dopo era ancora lì.

Era anche uno sportivo Enzo, e volle diventare velista: “Compra una Flying Dutchman (piccola imbarcazione) e coinvolge la mamma nello studio della vela. Peccato che navigavano nell’Idroscalo (‘acquitrino’ milanese adibito all’atterraggio degli idrovolanti durante la guerra) in inverno e con pesanti cappotti assolutamente sconsigliati perché con quelli addosso se si cade in acqua si fa presto ad annegare. Una volta decide di fare il Karate e ha la fortuna di incontrare il grande Maestro Shirai. Diventa cintura nera e si spacca quasi tutte le dita dei piedi e la schiena. Soffrirà di forti dolori per tutto il resto della vita.”

Il libro Aspettando al semaforo è un testo originalissimo, in cui Paolo, in ben dodici capitoli su ventidue, immagina di ritrovarsi fermo al semaforo con suo padre anche lui fermo lì in contemporanea. A quel punto nasce tra loro, che sono padre e figlio ma potrebbero anche essere due sconosciuti qualsiasi, un fitto e lungo dialogo. La struttura di tale dialogo è filosofica, a volte anche un po’ difficile da comprendere. Devi leggere e poi ritornarci e leggere ancora, ma è davvero bellissima. Certo è che per trarne tutto il succo, alla lettura di questo libro ti ci devi abbandonare. Enzo e Paolo Jannacci, così diversi eppure uguali nell’ebbrezza della passione musicale totalizzante, sanno entrare nell’umanità e nella poesia e nei loro flussi, costi quel che costi. Da questi flussi bisogna lasciarsi trasportare, è una felice esperienza, che non manca di momenti divertenti.

“Questa, in breve, è la sordida vita di un semidisgraziato che mi sono ritrovato a gestire come padre e viceversa, ma così va il mondo… e viceversa.” (Paolo Jannacci)

Norma D'Alessio

Di mestiere pediatra. Per ulteriori impegno e passione: scrittrice, giornalista, editor. Il suo sito:www.normadalessio.it

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