“L’abbecedario del caffè” (Affiori editore) è il primo romanzo di Umberto Mancini, giornalista, fotografo e grafico editoriale specializzato in infografica, collaboratore a lungo con le testate del gruppo Caltagirone e del Gruppo Ge.Di. È un’opera che affronta con delicatezza temi cruciali come la paura del diverso, l’immigrazione e l’importanza della conoscenza per superare le barriere culturali. La storia è ambientata tra il 2015 e il 2016 e narra l’incontro tra Andrea, un professionista napoletano, e Ameer, un giovane migrante libico, durante un viaggio in treno da Milano a Parigi. Paura e pregiudizio si trasformeranno in un’opportunità di crescita e cambiamento per entrambi i protagonisti. Il libro offre una riflessione sul timore dello straniero e di chi è considerato “diverso” più in generale. Un sentimento spesso alimentato dall’ignoranza e dalla disinformazione. Per gentile concessione dell’autore e dell’editore, pubblichiamo il primo capitolo del romanzo, che lancia una sfida contro il pregiudizio e l’incomunicabilità tra cultura diverse.
1.
Settembre da poco aveva aperto le sue porte, l’aria era ancora calda, i colori del mattino concilianti, il mare fermo. Tutto era piatto come un tavolo da pranzo apparecchiato per una persona sola: la leggera brezza che ogni tanto gli sfiorava il viso sembrava stesse inutilmente soffiando. Napoli era immobile.
Andrea camminava lentamente e guardava quell’immensa mole d’acqua che conosceva bene ma ogni volta catturava il suo sguardo chiedendosi quanto gli sarebbe mancato quell’odore di salsedine. Avrebbe voluto sentire il rumore del mare, il frangersi delle onde sugli scogli o sulla spiaggia, ma tutto era congelato come in una Polaroid che non avrebbe mai più dimenticato. Per riascoltare quei rumori avrebbe dovuto scavare nella sua memoria.
Gli piaceva fermarsi alla rotonda Diaz, guardare la silhouette di Capri in lontananza, e inspirare con le narici dilatate il più possibile: quel profumo gli entrava nel corpo per una scossa in grado di rappacificarlo con la sua città. Gli piaceva poggiarsi sulla ringhiera circolare di quello slargo e guardare l’acqua insolitamente pulita, sentire alle sue spalle qualche corridore molto più giovane di lui tenere un passo non più alla sua portata. Ma non gli importava, in quelle ore era fondamentale respirare l’acre odore del sale che timidi sprazzi di brezza portavano verso di lui. Con calma, senza fretta.
Sul lenzuolo di spiaggia sotto la balaustra non c’era nessuno, neanche quel dog sitter che incontrava tutte le mattine. Lo osservava sempre provando invidia: quel sorriso e quell’allegria li aveva dimenticati da molto tempo. Quella mattina avrebbe voluto vederlo, sapeva che nei giorni seguenti non lo avrebbe incontrato e un po’ gli dispiaceva. Quell’uomo con i suoi cani erano una piacevole abitudine e le certezze lo nutrivano. Da sempre.
La corsa mattutina faceva parte di un programma giornaliero privo di variabili. In taxi raggiungeva l’incrocio tra via Posillipo e via Caracciolo, da lì si teneva in forma percorrendo, ad un passo veloce ma non accelerato, per due volte, tutto il lungomare fino a Castel dell’Ovo, un terzo giro, quello che concludeva il suo allenamento, era una lenta passeggiata utile non solo per far riposare i muscoli, ma anche per guardare il mare e capire cosa fare: prossimo ai 50 anni ci teneva all’aspetto fisico ma non voleva esagerare. Tutto durava poco più di un’ora ed era fondamentale per lui fare moto in quel momento e a quell’ora del mattino. Non gli importava doversi svegliare presto. Era un suo momento privato a cui non avrebbe rinunciato per alcun motivo; sapeva che nei prossimi giorni, se avesse voluto rivedere il mare avrebbe dovuto prendere un treno per raggiungere Anversa oppure l’immensa spiaggia di Ostenda: il suo ritorno a Bruxelles era alle porte ed era consapevole che il Mare del Nord era del tutto diverso da quello di Napoli. Non riusciva a spiegarselo: si trattava sempre di acqua salata, eppure sembravano essere due masse d’acqua completamente diverse. Anche la sabbia era la stessa, ma erano due mondi opposti, non avevano nulla in comune.
Tornato a casa dopo l’allenamento, si spogliò dei capi per il running comprati in un negozio esclusivo della città, cominciò a muoversi nudo nel suo appartamento, osservando per l’ennesima volta tutto per bene. Quella consuetudine era nata negli ultimi mesi: non amava stare a lungo senza indossare nulla, si sentiva fragile. Era l’unico omosessuale a non aver frequentato spiagge nudiste, i suoi pochi amici gay erano ossessionati da un’esibizione del proprio corpo che non riusciva a capire e, nonostante la sua cura maniacale della forma fisica, non era interessato ad esibirla. Eppure, da quando aveva firmato il contratto per il nuovo lavoro e la trasferta belga si stava materializzando, aveva cominciato a muoversi senza indumenti nel suo appartamento, una necessità di cui sentiva il bisogno quanto più si avvicinava il giorno della partenza. A volte si soffermava davanti ad uno specchio vicino alla stanza da letto ed osservava i lineamenti del viso, le forme del torace le seguiva poggiando il dito sullo specchio come se volesse disegnarle per imprimerle in quel punto della casa. Quando si guardava il volto avrebbe voluto trovare qualche somiglianza, un segno, una traccia del suo passato ma non ci sarebbe mai riuscito: un uomo adottato è condannato all’ignoranza. Era padrone solo di un pezzo della sua vita, il resto avrebbe solo potuto immaginarlo ma evitava di dare spazio a pensieri privi di fondamento: sarebbe solo giunto a conclusioni di cui non sarebbe stato in grado di valutare l’autenticità, e non sopportava l’idea di poter sbagliare. Mai.
Senza vestiti continuava a girare in maniera sempre più ossessiva tra quelle mura che conosceva perfettamente, voleva essere certo di non dimenticare nulla. il giorno della partenza non avrebbero dovuto esserci ostacoli di alcun tipo. Riguardava le valigie oramai pronte, ricontrollava che non avesse dimenticato nulla nei cassetti riaprendoli e chiudendoli un numero imprecisato di volte, soprattutto verificava con fare ossessivo le date e gli orari dei treni prenotati oltre un mese addietro.
Ci teneva a fare questo viaggio in treno così come faceva tutte le volte che per lavoro doveva muoversi: se possibile evitava l’aereo. Consapevole della frenesia lavorativa in cui si era immerso, cercava in quel modo la pausa di cui aveva bisogno, poco importava se il viaggio fosse breve o lungo. Il treno lo rilassava e appena poteva ne approfittava.
Nel viaggiare in treno sentiva nitido da qualche parte della sua coscienza un invito alla preghiera di cui ogni tanto sentiva il richiamo. Gli piaceva anche l’idea di starsene comodamente seduto, lasciandosi trasportare da un estraneo, mentre osservava il mare scorrere all’orizzonte. Trovava un piacere singolare nello scrutare le luci accese nelle case, i graffiti, gli edifici fatiscenti e uguali fra loro, i cimiteri, e la sporcizia abbandonata con indifferenza lungo le strade o su ponti e deviazioni iniziati ma mai portati a termine. Se pensava al viaggio in treno gli sembrava che certi paesaggi fossero inevitabili, e questa considerazione gli dava una sicurezza di cui sentiva bisogno. Nessuno gli aveva mai chiesto le motivazioni che lo spingevano ad affrontare un viaggio così lungo e faticoso. Meglio così: odiava giustificarsi.
Dopo aver verificato gli aspetti pratici della trasferta, erano diversi giorni in cui spesso si soffermava ad osservare i mobili, le foto, le suppellettili della cucina di design consigliate dal miglior architetto della città. Toccava le tazzine per il caffè, la pelle dei divani del salone e con le mani ancora umide di sudore accarezzava le pareti porose della casa che stava per lasciare cercando un’emozione, un ricordo, un motivo che lo facesse rinunciare a quella decisione. Voleva capire se quella fosse la scelta giusta. I dubbi mai avevano accompagnato le sue scelte, ma in quelle ore erano onnipresenti tra quelle mura. Per la prima volta le sue certezze si mostrarono fragili, ma sapeva che partire era diventato necessario. Aveva bisogno di cambiamenti e quell’incarico in Belgio era arrivato al momento giusto. Il suo bighellonare tra le mura domestiche non gli suscitava più nulla: quella ricercatezza, il design di cui si era circondato, il lusso che amava ostentare, non erano più motivo di attenzione, cercava altro: voleva capire di cosa avesse bisogno non riuscendoci in alcun modo.
L’ingresso di casa era diventato un deposito, l’indomani il corriere sarebbe andato a prendere le scatole con il necessario da portarsi dietro: aveva firmato un incarico triennale per una multinazionale della comunicazione. Tre anni a Bruxelles? Questa era la domanda che continuava a porsi a cui non sapeva dare una risposta. E se non si fosse trovato bene? E se le promesse del suo curriculum fossero state sopravvalutate dai dirigenti che lo avevano voluto? Domande tante, dubbi troppi e zero risposte.
La gioia si mischiava alla malinconia e l’adrenalina non rendeva i suoi pensieri fluidi e comprensibili. Non riusciva a tenere a bada quello che stava provando in quelle ore: un intricato groviglio di emozioni sempre più ingarbugliate col passare delle ore.
Conosceva bene la capitale europea: cinque anni prima ci aveva lavorato per sei mesi. Ma, in quell’occasione sapeva trattarsi di un periodo limitato che sarebbe trascorso rapidamente, questa volta l’incarico aveva una durata più lunga e soprattutto il desiderio di lasciare Napoli stava diventando preponderante. Il solo pensiero di abbandonare tutto e tutti per una nuova vita lo riempiva di energia. Stava andando a vivere in Belgio, era ora che si rendesse conto di come stavano le cose, non si trattava di una breve trasferta, ma qualcosa di più.
Prima di entrare in bagno per la doccia squillò il cellulare, non conosceva il numero.
“Pronto chi è?”
“Buongiorno, sono Gianluca dell’agenzia immobiliare, le volevo solo confermare che passo domani pomeriggio a prendere un duplicato delle chiavi e per fare delle foto ulteriori da inserire sul nostro sito”
“Va bene, a domani. Grazie” rispose con freddezza. Quella telefonata era il primo tassello della sua trasferta all’estero.
Aveva deciso di dare in gestione l’appartamento ad un’agenzia che lo avrebbe affittato a turisti per brevi soggiorni. Gli sembrava una buona idea, soprattutto non definitiva.
Qualora avesse avuto dei ripensamenti, casa sua era lì e questo pensiero lo confortava molto. I dubbi erano gli unici suoi compagni di quelle ore, in alcuni momenti gli sembrava di vederli in giro per casa, e questo non lo aiutava in nessun modo.