«30 gennaio 1924. Gare de Lyon, una tra le più belle stazioni della capitale francese, vicino a Place de la Bastille. Una stazione moderna, costruita per l’Esposizione universale del 1900. Svetta, a un angolo dell’edificio, una torre con il più grande orologio della città. Al suo interno c’è un irlandese che aspetta un treno, un treno che non arriverà. Affetta eleganza in maniera malcelata, il nostro signore: indossa un ampio vestito a nasconderne l’esile figura. Sembra un fuscello: si piega facilmente al vento, ma non si spezza mai. Ha un Borsalino in testa, in mano tiene un leggero bastone di frassino, e porta lenti spessissime, abituate a velare occhi stanchi e sofferenti. Quegli stessi occhi che avrebbero saputo scrutare “nel nulla” solo per scoprirvi un “bellissimo niente”.
Il nostro uomo aspetta un treno, ma il suo sguardo stanco non accoglierà il vecchio amico atteso: un triestino, da lui diversissimo in tutto, ma anche stranamente uguale. L’uomo che non arriverà ha folti baffi e veste in maniera accurata. Il portamento non è dinoccolato e indifferente come il suo. È un uomo di sostanza, lui. Sicuro di sé, ma solo all’apparenza. Dal sorriso sempre sornione, e più maturo. Vent’anni tra due uomini fanno la differenza. Un cappello a falda stretta nasconde la calvizie che tanto l’aveva preoccupato in passato, segno di senilità precoce. Una quindicina d’anni prima aveva bonariamente rimproverato la moglie per essersi dimenticata di mettere in valigia la ‘petrolina’, prodotto creduto in grado di contrastare la caduta dei capelli.
L’irlandese lo attende invano, per un po’. Poi se ne va. Una volta tornato a casa decide di scrivergli, in italiano: “Caro amico, Sono andato alla stazione ma nessun treno era in arrivo (nemmeno ritardato) nell’ora indicatami (…). Quando ripasserà per Parigi? Non potrebbe pernottare qui?” Mancano pochi giorni al suo compleanno, un giorno fatidico, il 2 febbraio. È per quella data che, due anni prima, nel 1922, ha voluto a tutti i costi veder uscire il suo romanzo di una vita, Ulisse, libro che avrebbe nel bene e nel male cambiato le sorti della letteratura del Novecento.
L’amico di Trieste ha invece da poco pubblicato il suo, di libro della vita. E gliel’ha inviato. La dedica in inglese, datata 27 dicembre 1923, recita: “per favore non si arrabbi per le pagine su cui vergo i miei auguri.” Un regalo di Natale in ritardo, dunque, ma anche di buon compleanno in anticipo. Qualche settimana dopo, a gennaio, forse perché l’irlandese si dimenticò di dare conferma d’aver ricevuto il plico, gli confesserà il suo grande disappunto per il silenzio in cui l’opera era sprofondata in Italia.
Quel silenzio l’aveva convinto che solo uno sciocco alla sua età – sessantatré anni suonati – può decidere di mettere di nuovo mano alla penna, perché si rischia il ridicolo.
E invece no. L’amico irlandese, dopo averlo atteso invano alla stazione, lo conforta affettuosamente facendogli sapere che ha ricevuto il libro, ma già ne aveva una copia, ordinata da Trieste: “Grazie del romanzo con la
dedica (…). Sto leggendolo con colto piacere. Perché si dispera? Deve sapere ch’è di gran lunga il suo migliore libro.”
Per qualche motivo che non conosciamo, ma su cui si può fare più d’una ipotesi, Joyce aveva atteso con ansia l’uscita del libro di Ettore Schmitz/Italo Svevo. Era stato pubblicato un anno circa dopo il suo Ulisse, ma le due opere sono stranamente collegate. Affini in una distanza siderale. Legano vite e idee in un continuum perturbante. Sono affratellate da un misterioso entanglement.
Quando Joyce scrisse a Svevo, quel giorno, lo informò che dalle prime pagine due cose lo interessavano del romanzo. Il tema del fumo – mai aveva pensato che “il fumare potesse dominare una persona in quel modo” – e poi qualcosa di caro anche al suo stile: “il trattamento del tempo”.»
[Enrico Terrinoni, La vita dell’altro]