C’è una differenza sostanziale tra un leader forte e un leader paranoico: il primo costruisce ponti, il secondo costruisce dazi. E quando il secondo si chiama Donald Trump, i ponti crollano e i dazi arrivano come un cowboy ubriaco che si spara tra le gambe convinto che le balle stiano tramando.
Trump ha annunciato nuovi dazi fino al 30% su una serie di prodotti europei: vino, automobili, formaggi, olio. L’Europa, quella vera, quella che mangia bene e legge Camus senza doversi scusare, dovrebbe forse tremare? No. Dovrebbe ridere. Ma con grassa ironia, quella che sa tagliare fino all’osso. E magari rispondere col colpo più elegante: un’analisi che smonta la paranoia trumpiana pezzo per pezzo. E poi, se proprio serve, una bella tassa di ritorsione su ogni stupido cappellino MAGA.
Questa nuova ondata di dazi ha un solo scopo: rianimare un’idea di sovranismo economico che ha già dimostrato di essere un boomerang. Trump vuole convincere l’elettorato che se l’America va male, è colpa degli altri: dell’Europa, della Cina, dell’OMS, dei climatologi, delle biciclette elettriche e magari anche del Parmigiano. È la tipica, vecchia tecnica da populista scemo: sposta l’attenzione dalla stagnazione interna all’invasione del Chianti, dell’Epoisses, del prosciutto e poi, ovviamente, degli immigrati: molto intelligente e nuovo!
L’economia reale non funziona come un comizio in Ohio. Colpire i prodotti europei non aiuta i lavoratori americani, danneggia i consumatori americani. Il vino europeo non lo beve solo l’élite liberal di San Francisco: lo trovi nei supermercati del Midwest, nei ristoranti texani e nei matrimoni in Florida. E ogni dazio imposto è una tassa indiretta sui cittadini USA. Ma certo, Trump direbbe che è una tassa “patriottica“. Come mangiare pane ammuffito per sfidare l’Europa: protezionismo da saloon del west.
Trump immagina l’Europa come un nemico subdolo: sofisticato, snob, sempre con la camicia stirata e la erre moscia. Una specie di Brigitte Bardot con la baguette in mano e il disprezzo negli occhi. Lui, invece, veste John Wayne, ma con meno poesia e più ketchup… gli mancano solo i nativi indiani da massacrare, ma non è detto che prima o poi non se li procuri come fa a Gaza col suo sodale.
Il protezionismo trumpiano è una nostalgia tossica travestita da politica economica. È la convinzione che chiudere le frontiere ai prodotti esteri rafforzi l’economia. Ma il mercato globale funziona con catene di valore, scambi bilaterali, cooperazione. Non con il sospetto, la vendetta e la bestialità dell’ignoranza geopolitica.
Dazi del 30%? Allora dovremmo tassare anche noi – che so? – le Jeep Wrangler prodotte in Ohio, i pantaloni cargo, i bicchieroni da due litri con cui si beve tè freddo aromatizzato al diabete. Mettiamo un’imposta di lusso su ogni film yankee dove ci sono esplosioni, sparatorie e scazzottate?
L’invidia rovesciata, servita calda
La verità è che Trump (e tutti i suoi trumpiani) detestano l’Europa perché la invidiano. Non lo direbbero mai, ovvio, perché l’invidia è un sentimento intellettuale. Ma lo dimostrano: la odiano proprio per ciò che desiderano. La cultura, l’eleganza, il cibo vero, l’educazione pubblica, le città senza pistole in ogni tasca, scuole senza massacri e polizia che non massacra i clandestini, specie se neri.
Li disturbano i musei aperti fino a tardi, le librerie affollate, la possibilità di studiare senza finire sotto debiti da mutuo. E così trasformano il fastidio in odio. E l’odio in dazi. È psichiatria di base, venduta come strategia globale.
E diciamolo: Trump non è un visionario, è un influencer geriatrico con accesso a testate nucleari. Governa a colpi di slogan e paura, con lo stesso modo in cui un adolescente nevrotico lancia insulti in una chat di Call of Duty. Solo che al posto di joystick ha il destino di interi mercati globali.
I dazi colpiscono il vino, ma anche il formaggio. Cosa pensano di ottenere, colpendo il Camembert, il Parmigiano, l’Époisses o il Roquefort? Che il popolo americano torni allo schifoso Parmesan o al Cheddar pieni zeppi di colesterolo con felicità e come atto di resistenza patriottica?
Immaginate la scena: cena elegante a Manhattan, ospiti ambasciatori, imprenditori, influencer. “Scusate, niente Brie e prosciutto di Parma stasera: nonno Donald ha deciso che è immorale. In compenso, abbiamo Cheddar, panna spray, hot dog e hamburger.” Sai che scena! Tutti contenti della cucina yankee!
L’odio verso l’Europa è anche una forma di autodifesa narcisistica: meglio dire che Roma è piena di pietre vecchie sparse ovunque, che Parigi è piena di immigrati, che Londra è islamizzata e che a Madrid mettono un uomo vestito di ridicoli lustrini con in testa un cappellino nero a banana ad ammazzare bovini in uno stadio piuttosto che al macello… anziché ammettere che la vecchia Europa – con tutti i suoi problemi – è decenni avanti per tolleranza sociale, civile e culturale.
C’è in fondo una forma di invidia culturale latente, mal digerita: gli europei parlano più lingue (difficile trovare un trumpiano che -oltre a massacrare l’inglese – parli una seconda lingua), viaggiano di più, leggono romanzi con titoli strani, mangiano da dio senza ingozzarsi di colesterolo, usano l’ironia con eleganza, citano filosofi con disinvoltura e riescono a vestirsi con gusto anche sotto la pioggia.
Ma invece di riconoscerlo, meglio ridicolizzarli: “…Quelli mangiano lumache, rane e non solo… mangiano addirittura carne di cavallo!” che – specie gli stati del sud USA – è come mangiare carne di cane.
È il classico meccanismo di chi disprezza ciò che teme di non capire o eguagliare.
Ma ci copiano… Criticano l’Europa e ne imitano ogni dettaglio non appena diventa Instagrammabile: dal cappuccino al trench coat, dalla dieta mediterranea alle vacanze in Toscana, dalle borse italiane al bon ton da salotto francese, dall’ordine tedesco alla correttezza londinese.
L’Europa dovrebbe rispondere tassando in modo selettivo tutto ciò che incarna la sottocultura trumpiana: sigarette mentolate, crociate anti-woke, magliette con la bandiera. O meglio ancora, tassare ogni tweet scritto nel loro rozzo inglese. Sarebbe un surplus fiscale per l’eternità.
L’arma finale: il bon ton. E qui arriviamo al punto: la miglior risposta ai dazi non è rabbiosa. È elegante. È servita fredda. Con un sorriso. Con un bicchiere di Taurasi o Cabernet Sauvignon e un libro di Jean-Paul Sartre, anzi no della femminista (Tiè!) Simone de Beauvoir, lasciati sul tavolo, aperti a caso, giusto per creare disagio e inferiorità culturale.
Trump agisce come se l’Europa fosse un concorrente da schiacciare. Ma l’Europa non gioca con le sue regole. E non ha bisogno di urlare. Basta continuare a vivere meglio, con meno armi, più diritti, più scuola, più arte. E magari -sfida delle provocazioni- con meno obesità da McDonald.
In chiusura: brindiamo lo stesso. Trump mette i dazi al 30%? Noi rispondiamo con una stretta di mano, un bicchiere di Chianti e un consiglio di lettura: “L’uomo in rivolta” di Camus… l’uomo che pensa di combattere contro l’assurdo e la mancanza di senso dell’esistere.
E se proprio vogliamo pareggiare i conti, allora sì, mettiamo anche noi un dazio, uno simbolico, di civiltà: tassiamo l’idiozia trumpiana… Ci riempiremmo di soldi.