Di Cicco, Alice nel paese delle meraviglie e della scrittura

Un racconto che si ascolta con l’odore del sale nelle narici e con la sensazione rara di non stare mai sulla terra ferma

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Va bene, d’accordo, restiamo ai fatti. E i fatti sono che non c’è poi tutta questa differenza tra una creatura vivente e l’altra. Alla fine siamo tutti impastati con la stessa argilla e lo stesso soffio, lo stesso spirito, lo stesso vento divino; che poi non è altro che il grande vento cosmico che agita pianeti, comete, meteore, galassie, giù giù fino all’ultimo angolo dell’universo…
E quindi Alice era una stella?
Sì. Alice era una stella che stava in fondo al mare. Perché le stelle stanno dove stanno, e non gli cambia niente se stanno di qua o di là. Proprio come le stelle di questo cielo antartico, che non gli importa di stare a testa in giù perché restano stelle uguali. Lucio Di Cicco, Vita avventurosa di un’acciuga cantabrica, L’Orma Editore, pag. 172.

O Alice è semplicemente un’acciuga? Una di quelle che lontana da tutte, solitaria nelle profondità del mare, cerca l’amore o, forse, una bocca spietata in debito di aria e di scrittura? I Trabucchi sono una tra le collane di questa pregevole casa editrice che pesca in spazi ibridi o nei mari aperti di una letteratura formata e deformata dal presente. E questa di Lucio di Cicco è una storia di un lungo viaggio tra il picaresco e il fantastico. E insieme un percorso interiore, un cammino di formazione o addirittura una sfida, un’avventura che inizia con il mare e con il mare si completa. Un romanzo, insomma, che è più un racconto lungo che una ritardata esecuzione. Sul ponte della Capitan Cerano, Giovanni, il protagonista di queste deliranti o incredule gesta, narra al sospettoso e curioso marinaio e anche boia che gli fa da guardia, com’è arrivato davanti al cappio che da lì a poche ore farà di lui, cibo per i pesci.

L’avventura era cominciata quando da bambino, già con i carabinieri alle calcagna, aveva trovato rifugio sotto il sartiame di una paranza che pareva abbandonata. La nave era salpata, e il nascondiglio si era trasformato nel viaggio di una vita. Così, sotto lo sguardo attento e facilone del boia e del lettore si dipanano, tra birre, rum e un luculliano pasto,– il condannato per ordine del capitano della nave ha diritto a essere esaudito nei suoi ultimi desideri – le avventure vorticose, febbrili e convulse dell’irreale eroe, o solo affabulatore, impostore, ladruncolo, assassino per legittima difesa, o anche indomito amante, marito, o addirittura un nuovo Battista per vaticinio di un prete spretato. Così dalle rotte del Bosforo, del Mozambico o della Malesia fino alle estremità del mondo è una continua tensione di approdi e di fughe. E come in ogni romanzo d’avventura si sta con il fiato sospeso. S’incontrano personaggi strani. Contrabbandieri. Mercanti senza scrupoli. Bevitori incalliti. Rivoluzionari. Donne virtuose. Sgarbate. E prostitute. Ma anche un’umanità consunta e ingenua. È sorprendente come ancora si possa assaporare una letteratura così semplice e così irreale. Quasi una scrittura conformata. Un paesaggio certo ma con improvvisi strapiombi. Il desiderio dell’oceano. Dell’imprevisto. Dell’improvviso apparire e sparire delle cose. Degli abbandoni. O delle meditazioni. “Ed ecco che lì, in quel mondo australe, con le costellazioni del Cane e dell’Indiano al posto delle ingannatrici Orse maggiori e minori, la vita d’improvviso mi apparve nella sua vera essenza: un sopra e un sotto ben sagomati e distinti: poveri poveri e ricchi ricchi, e in mezzo un deserto impossibile da attraversare.”

Chi racconta è alle prese con il suo passato, il solo che esiste, sebbene si tenti continuamente di metterlo da parte, d’invocarlo solo per tenerlo lontano in nome di quel presente che pare l’unico tempo capace di dare significato a quella fame d’irrequietezza che è l’esistenza. “Da sempre. I vivi campano solo grazie ai morti. Non lo sapevi? Cos’altro genera la vita, se non la morte? E cosa possono fare i vivi se non nutrirsi delle spoglie dei morti”? Tuttavia, di là dalle movenze esistenziali, rocambolesche o elettive – “Mi vedi in questo stato, stracciato e malridotto, solo per un rovescio di fortuna, ma io sono un Battista e un battistrada, cioè un destinato a diventare un santo, e anche di prima grandezza.” – a prevalere è l’elemento fantastico, specialmente ne è intriso il dialogo del protagonista con il boia che non fa altro che indispettirsi, irritarsi e rendere evidente le incongruenze dei fatti narrati. Metafora della letteratura o altro che sia appare evidente come ogni racconto, e questo è un resoconto finale, chi racconta deve essere giustiziato per le tante malefatte, ha un che d’immaginario, di favoloso, d’irreale, ma anche di dottrinale, di teoretico, sebbene nella forma di una possibile o fittizia ironia. “Il tempo non è di Dio, come molti credono: è una nostra invenzione, anzi: la prima invenzione nostra, il primo aggiustamento che abbiamo fatto all’opera del Creatore. E come nostra invenzione, c’è solo se noi lo pensiamo.”. Come a dire che le onde furiose di tante avventure o di tanti naufragi che la vita ci riversa o riserva, non sono altro che fantasticherie, ideazioni, creazioni che la letteratura inventa a immagine e somiglianza di un tempo che non esiste, perché è un tempo tramato, perché è il tempo della letteratura che si muove sempre in acque turbolenti, dove è possibile scendere a cinquanta o sessanta metri e accorgersi che si respira, che si vive e che ci s’innamora. Ci si salva. Pregio di questo lungo racconto per merito di un condannato e di riservare un finale sorprendente, che dà altra grazia e armonia alle vicende narrate. Quando l’ora dell’esecuzione è imminente, si approda in Patagonia, dominio di un sanguinario don Ferdinand. E qui che il nostro eroe, lanciatore di coltelli e assassino si riscatta. E qui che si attua la Rivoluzione. Lucio di Cicco ha scritto un romanzo appassionato di tracolli e di redenzione. Un romanzo, un racconto che si ascolta con l’odore del sale nelle narici e con la sensazione rara di non stare mai sulla terra ferma. Si oscilla. Si traballa. Si annaspa. E sempre con un cappio ben in vista. Destino degli eroi e della letteratura.

[Lucio Di Cicco, Vita avventurosa di un’acciuga cantabrica, L’Orma Editore, pag. 172]

Lucio Di Cicco, nato a Sulmona nel 1952, è un ferroviere in pensione che vive tra Roma, Sulmona e Delft, in Olanda. “Vita avventurosa di un’acciuga cantabrica” è il suo primo romanzo.

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