Cimitero Mediterraneo: 2700 morti in un anno

Le politiche migratorie continuano a far apparire la mobilità pericolosa, e l'emigrazione viene associata solo all'invasione e all'emergenza continua. Quando fermeremo le stragi in mare?

Tempo di lettura 1 minuto

Duemilasettecentotrentuno morti nel mar Mediterraneo nel 2023. Morti, tutte, evitabili, se ci fossero politiche migratorie fondate sulla concessione di visti da parte degli stati europei invece di politiche di chiusura. Certo, le retoriche politiche vanno nella direzione opposta, come l’accordo (sospeso) con l’Albania prevede, ma queste politiche sono le medesime da, ormai, venticinque anni, nonostante il fatto che i morti nel Mediterraneo sono stati più di ventimila. Il fallimento è chiaro – delle politiche italiane così come di quelle europee – ma questo non basta a metterle in discussione.  Perché? Perché ci siamo convinti di subire un’invasione, di vivere un’emergenza continua, di lasciare aperta la porta ai terroristi sui barconi: ci siamo abituati alla paura. E ci siamo abituati, allo stesso tempo, alla morte.

Primo Levi, nel testo “I sommersi e i salvati”, scriveva che per dare la morte bisogna rendere l’altro inferiore: “prima di morire, la vittima dev’essere degradata, affinché l’uccisore senta meno il peso della sua colpa”. Cosa vuol dire questo, che gli stati europei e quello italiano uccidono le persone in mare? Evidentemente, no. Vuol dire che le loro politiche non facilitano la mobilità e, così facendo, la rendono pericolosa, fino al punto in cui le persone possono morire. La degradazione avviene quando i morti vengono accusati della loro sorte, quando questo tipo di immigrazione viene associata all’emergenza o all’invasione, quando questo tipo di mobilità viene collegato all’islamizzazione forzata o all’avanzata dei terroristi.

Mettere in discussione tale processo di degradazione è, allora, necessario come condizione utile per superare le politiche migratorie fondate sulla chiusura selettiva delle frontiere. Così come bisogna chiedersi – e questa è la domanda più importante – cosa in Europa e in Italia vogliamo fare di fronte a questo numero continuo di morti. Vogliamo continuare come negli ultimi venti anni – compresa la proposta sempre reiterata della lotta ai trafficanti – o vogliamo riconoscere il fallimento di queste politiche e, quindi, cambiare tutto con l’obiettivo di azzerare i morti nel mare? La risposta che daremo a questa domanda segnerà il presente e il futuro della nostra civiltà italiana ed europea: una civiltà escludente, che si è abituata alla morte e alla sofferenza evitabile, o una civiltà democratica, che vuole valorizzare la vita e la socialità.

Gennaro Avallone

Nato nel 1973, è professore di sociologia dell'ambiente e del territorio presso il Dipartimento di studi politici e sociali l'Università degli studi di Salerno. Tra i suoi temi e ambiti di ricerca si segnalano i processi di emigrazione e immigrazione, il razzismo, il lavoro agricolo, l’ecologia politica e la sociologia urbana.

Previous Story

Benvenuti nel mondo della violenza globalizzata

Next Story

La crisi antropologica e politica della pace