“Perché Dio non mi ha dato la grazia di averti come compagna anziché come madre?”
Mi chiedo perché oggi si parli così poco di Alberto Bevilacqua, autore significativo del secondo novecento, e nelle librerie ormai quasi introvabile.
Poeta, scrittore, giornalista, sceneggiatore, regista. L’unico ad essersi aggiudicato i premi Campiello (Questa specie d’amore, 1966), Strega (L’occhio del gatto, 1968), Bancarella (Un viaggio misterioso, 1972 – I sensi incantati, 1991).
Tradotto in molte lingue, conquistò il successo mondiale grazie al romanzo e al film, da lui diretto, La Califfa, storia di una donna passionale e spregiudicata memorabilmente interpretata da Romy Schneider.
Madre e non mamma
Rapito da Lisetta
Nato nel 1934 a Parma, ma vissuto stabilmente a Roma sin dall’età di ventiquattro anni, ebbe un rapporto simbiotico con sua madre, testimoniato da svariati scritti, in particolare Lettera alla Madre sulla felicità, pubblicato nel 1995. Libro maieutico di emozioni, in cui Bevilacqua compie una catabasi, una sorta di discesa agli inferi dell’oltretomba, confessando, rivolto a Lisetta (che chiama sempre e solo Madre, il nome mamma gli suona “scialbo e insignificante”), tutto di sé, senza pudori né paura. Più che come lettera, il testo si struttura come un lungo monologo.
La sua paura era, fu, per troppo tempo un’altra, quando come un fulmine si abbatté su di lui la sciagura della calunnia.
Di tale calunnia, racconta in questo libro ogni conseguente devastazione della psiche, ogni stravolgimento della sua quotidianità. Si ritrovò solo in un oceano di ombre, che lui descrive come nessuno mai, in quanto Bevilacqua possiede nei giacimenti della sua cultura forti conoscenze esoteriche, di astronomia, telepatia, e soprattutto ha ricevuto in eredità la narrazione orale degli Strioni. Gli viene dalle nebbie e le dune sabbiose del Po, ma anche da sua madre, che sin da piccolo gli racconta intrighi di storie vere e inventate, che si muovono in regni di bizzarrie. Anche sua nonna materna, una medium che usciva con una gatta sottobraccio, ebbe un ruolo importante in questo senso. Aveva avuto 18 figli, uno ad uno morti, ma diceva di essere una quercia immortale e che neanche queste tragedie sarebbero servite a disamorarla alla vita.
Nel regno di prodigi
e di tanti circhi erranti
“Mia madre, e la madre di mia madre, amavano gli Strioni, maestri di prodigi che qui regnarono, e la loro Lingua della Leggera, che qui nacque per espandersi in tanti gerghi e dialetti, e i loro circhi erranti e favolosi, davvero le mille e una notte…”
Una donna, Lisetta, dalla “luminosa intelligenza dei sensi”, e dalla ilare filosofia di vita. Aveva una malattia della ragione nutrita dalla fantasia e non arresa nemmeno ai numerosi elettroshock cui fu sottoposta nel corso dei suoi ricoveri in ospedale.
“La vita può distruggere, se non riusciamo a mantenere in noi una qualche forma di allegria. Quando ci dimentichiamo che l’anima è per sua natura allegra, quell’anima viene travolta. Il sentimento del sorriso è il solo antidoto possibile, la sola arma micidiale che noi possiamo contrapporre alla vita quando essa malamente ci investe.”
La schiava turca
del Parmigianino
Portava tra i seni un’immaginetta che era il suo credo e il suo simbolo: la Schiava turca del Parmigianino. La portava da anni, protetta da una custodia di stoffa, e quando suo figlio partì per Roma, la lasciò scivolare tra le sue dita. Questa immaginetta, che Alberto bacia nel “passaggio delle consegne” sempre avrà per lui un significato speciale, e così come accaduto per sua madre, col passare del tempo diviene “il suo stesso batticuore”.
Nessun dipinto, nessuna fotografia esprime secondo lui con più potenza vitale il sentimento del sorriso, quel sorriso che in petto a sua madre aveva sempre pulsato, nonostante i molti sbandamenti della mente, e che faceva ripetere rivolta a lui piccino: “Stai contento, garibaldino. Alla tua età si ha tutto, per essere contenti!”
E ancora:
“Vi chiedo per quale ragione non avete mai fatto ridere o sorridere Cristo nei Vangeli? Gli avete cancellato il riso e il sorriso a questo povero figlio mio, e l’avete presentato all’umanità sempre serio, compunto, troppo compreso di sé…”
Il marito, aviatore fascista, fa ritorno dalla prigionia in Germania quando Alberto è ragazzino. È un bel pezzo d’uomo dagli occhi celesti, piace un sacco alle donne e le donne piacciono un sacco a lui, che ne ha avidità incontenibile, ma per Lisetta quello che conta è che lui, come i passeri, alla sera faccia ritorno. Nella loro casa di Sabbioneta, il piccolo Alberto dorme all’ala estrema rispetto a quella dei genitori. Pure da tanto distante, però, gli arrivano i gridi d’amore della madre e le risate della lietezza degli amplessi. Una volta, scalzo, vuole andare a vedere. La porta è socchiusa, la madre distesa su un fianco. Il turgore dei seni nudi prende tutta la scena. E’ l’unico momento della vita in cui Alberto dubita dell’amore di sua madre. Il giorno dopo è mesto, silenzioso. Lei ne intuisce il motivo e gli parla di quanto siano vicine la felicità e l’infelicità…
Vita nell’incubo
di tante calunnie
La descrizione della calunnia subita, avviene attraverso tre diversi momenti. Nel primo, lo scrittore narra della sue sedute al Tribunale per la separazione giudiziale da sua moglie Marta. Un matrimonio diventato come “una muffa cronica del cuore”. Alberto è stanco, anzi logoro, da tutte quelle domande. Irritato, arriva a dire: ammetto tutto. Di fronte a un mare di accuse, fa anche dell’amara ironia: “Dimenticate le droghe.”
La sua mente si sdoppia per ricordare del Moscati, uno dei più fantasiosi amici di sua madre, che ne aveva tanti. Era molto brava a sceglierli. Moscati viveva andando in giro a raccontare storie. Cantilenava: “Io sogno quello che voglio sognare, e dunque sono più forte di Macalone, che nelle piazze piega i metalli con gli occhi. Io dico: adesso sogno uno storione che fila da moroso dietro la storiona, e giù che lo sogno…”
Poi una mattina si alza, il nostro scrittore, e come tutte le mattine scende in piazzetta per comprare i giornali. L’edicolante gli fa uno strano discorso, che non comprende. Lo comprende di lì a poco, quando apre un giornale e lo sfoglia. C’è lì un Alberto che lo guarda con la sua stessa faccia. A grandi titoli: Macché poeta dell’amore, mio marito aveva moltissime amanti!/Abbiamo scoperto un segreto nella vita dello scrittore/È un documento impressionante.
Il documento impressionante è la riproduzione fotostatica della deposizione della ex moglie Marta, con tutto il vomito di accuse contro di lui.
Chi può aver consegnato la copia dei documenti al giornale Eva tremila?
Alberto si fionda alla sede del giornale, ma il direttore Sandro Mayer ha premura di non farsi trovare.
“L’Italia è questa!”, aveva commentato l’edicolante. Sì, l’Italia è questa, ed è piena di italiani pronti a ringhiarti addosso, appena si presenta l’occasione.
Accusato d’essere
il Mostro di Firenze
E siamo alla tappa numero due della calunnia, quando alla procura di Firenze Alberto Bevilacqua viene denunciato da due signore. La prima è un’odontotecnica che scrive poesie. Afferma di essere stata a casa sua, ed è vero, per un parere su certe sue liriche. Ma non è vero il resto. Dichiara di avere fatto sesso con lui, che le ha confessato di essere il mostro, il che s’intende di Firenze. L’altra è una giornalista che decide di cavalcare la tigre. Nei loro confronti viene aperto un procedimento per calunnia, ma la macchina del fango si è ormai innescata. C’è chi desidera divertirsi. La Polizia protegge lo scrittore, ma la calunnia persecutoria è inarrestabile. Di quel periodo Bevilacqua scrive: “Il mondo intorno proiettava in me una sorta di avvizzimento corticale… ”.
E siamo alla terza stazione del calvario, quello che l’autore definisce “degli anonimi persecutori”. Il periodo più lungo e tenebroso. Quello dei colpi alla porta, delle telefonate minacciose: Ti uccideremo, delle lettere di insulti dove porco è l’epiteto più leggero. “Chiuso in albergo, nessuna visione, dal balconcino, mi rallegra più. Ora capisco, cara madre, che sono stato infettato. Il linciaggio, credimi, è come un morbo, infetta.” Ma è pur bello ricordare. Quel giorno che indusse Totò a telefonarle. “Allegra, signora. Quando meno te lo aspetti, la strega arcigna si trasforma nella fata più benigna…” E ancora Woody Allen. Le parlava in inglese. All’altro capo del telefono, Lisetta non capiva niente. Alberto le dice che si tratta di un grande comico americano e lei: “È Stanlio? È Ollio?”.
La più bella di tutte, quando le portò in casa Charlot.Lui era venuto in Italia intenzionato a girarvi un film ed aveva espresso a Dino De Laurentis il suo desiderio di visitare Parma, perché amava Stendhal.
Dino De Laurentis appioppò l’incombenza di accompagnarlo a Bevilacqua. Così Lisetta sentì bussare alla porta ed andò ad aprire trovandosi faccia a faccia con Charlot, che non riconobbe. Ci fu un momento di imbarazzo, lei era vestita male, poi lui vide il cappello del marito buonanima (morto a soli 53 anni) e lo indossò e un ombrello poggiato alla parete e lo prese per farci le giravolte e Lisetta capì e le si illuminarono gli occhi.
Ma è il terzo periodo, quello degli anonimi persecutori, la lunga notte dei coltelli di Alberto.
Pensa di dover morire e desidera, come Cesare Pavese: “Nessun addio. Nemmeno una riga, per favore!”. Nemica persino Roma, che sembra essere essa stessa, oltre i suoi pedinatori, a pedinarlo.
Lettera alla Madre sulla felicità è sicuramente un testo autobiografico, ma non sappiamo quanto raccontato da Alberto corrisponda a verità, e quanto sia inventato, vuoi per scelta letteraria, vuoi per nutrimento della fantasia facilmente eccitabile come quella di sua madre. Nel libro racconta addirittura che durante la persecuzione tentarono in più di un’occasione di ucciderlo, cosa che si stenta a credere, visto che da un certo periodo in poi fu sempre attenzionato dalla Polizia.
Desiderò un figlio
più di ogni cosa
Negli ultimi tempi si rammaricava molto di non aver avuto figli. Per anni non li aveva voluti, temendo di trasmettere loro il tormento di sua madre. Aveva ancora forte il ricordo delle sue fughe da casa quando lui era piccolo, e doveva andare a riprenderla nei boschi. In quei giorni non lo baciava più, aveva paura di trasmettergli il bacio dei folli.
Colpisce la narrazione dei suoi periodi di intensa solitudine:“Ho quasi quaranta di febbre e non un cane ad assistermi. Ho tanti amici medici, ma non chiamo nessuno. La mia testa, se vuole, scoppi pure come un melone. E sta scoppiando. Un’emicrania delle peggiori, che chiamano a grappolo, è come una mano d’acciaio che ti stritola la parte destra del cranio, la cavità orbitale, la mascella. Ho rancore per la vita, che mi ha fatto pagare a sangue ogni cosa mi sono conquistato.”
“E più che mai, in questi giorni di cranio infuocato e di pensieri orfani, mi strazia la mancanza di un figlio, che potrebbe avvicinarsi al mio letto e chiedermi Come stai. Se scamperò a queste vicende, sarò bigamo, trigamo. Non guarderò per il sottile: mi formerò una famiglia magari con una puttana assetata dei miei soldi, non m’importa. Ma non finirò i miei giorni senza aver provato la felicità di comportarmi con un figlio come tu Madre ti sei comportata con me…”
Morì in solitudine
e presto dimenticato
Invece muore il 9 settembre del 2013 in una clinica romana, dove mesi prima era stato ricoverato per scompenso cardiaco. L’autopsia richiesta dalla sua ultima compagna Michela Miti, che non crede alla bontà delle cure praticate, rivelerà invece l’infondatezza dei suoi dubbi.
Non so cosa ne sia stato della sua bella casa di Roma, un super attico di tre piani di cui i due superiori dedicati ai libri e ai quadri d’autore alle pareti, né cosa sia della sua inseparabile Olivetti Lettera 44, che di fronte ai tetti della città ticchettava sin dalle prime ore del mattino.
So che è stato dimenticato perché la gente dimentica facilmente, e il suo carattere ispido, il non avere peli sulla lingua nei rapporti interumani non lo aiutarono. Se gli si chiedeva un parere su un poeta e a lui non piaceva, senza mezzi termini lo stroncava. Dopo averlo tanto acclamato, nel tempo molti finirono col definirlo servo sciocco di Berlusconi, scrittore di best sellers ormai tramontati, autore di ‘liale’, insieme a Carlo Cassola e Piero Chiara. Fautori di una lingua troppo ammiccante e comunicativa con la pancia dei lettori.
Credo invece che la sua narrazione così vitale solida e moderna (come dote, lui annetteva a sé soprattutto quella della vitalità e preferiva che lo si appellasse semplicemente come artista), meriti di essere ricordata.
L’aveva chiamata arlìa, la sua arguzia narrativa solita burlare il mondo attraverso il gergo di alcuni individui, ed anche in questo libro ce ne dà testimonianza. Una lingua nata dalle strade, mutuata dal dialetto ma anche da influenze di lingua spagnola e francese.
Spero che il Meridiano Mondadori a lui dedicato, che è ancora in distribuzione ma a un prezzo poco accessibile, sia rieditato in forma più economica.
”.