Viviamo in un tempo in cui le guerre non finiscono: si trasformano. Non sono più conflitti che vedono un vincitore e un vinto, ma meccanismi che macinano vite, economie e verità.
Da una parte: massacri, distruzioni e accordi che non saranno mantenuti. Dall’altra: nei corridoi delle cancellerie, nei consigli d’amministrazione dei fondi d’investimento, si parla di affari.
L’esito di un conflitto oggi non dipende più dal risultato sul campo, ma dagli interessi che si muovono intorno. E infatti, Gaza appare più come un esperimento di sostituzione etnica e urbanistica che come un’operazione militare.
L’Ucraina è intrappolata in uno stallo che consuma speranze e generazioni con Putin che ha ancora centinaia di migliaia di uomini da mandare al macero e Trump che non vuole impegnarsi in nulla che non serva ai propri affari.
Le opinioni pubbliche, stordite, scorrono le immagini delle macerie come fossero parte di un reality. E dietro questo rumore di fondo, c’è una strategia di marketing globale che prepara il terreno al prossimo business planetario: la ricostruzione delle rovine.
Gaza: dall’annientamento alla speculazione
Dal punto di vista topografico, Gaza non esiste più. Interi quartieri sono stati rasi al suolo, infrastrutture vitali cancellate, scuole e ospedali ridotti in polvere. Non è stata solo una guerra, ma un reset urbanistico… uno sbancamento senza usare ruspe ed escavatori.
Mentre la polvere non si è ancora posata e qualche altra ammazzatina ci scappa qui e là, nei palazzi del potere israeliano e nei think tank occidentali si parla già di “rinascita economica”. Si discute di turismo, edilizia di lusso, investimenti immobiliari. Trump, già nel 2024, appena eletto, aveva evocato l’idea di una “Dubai sul Mediterraneo”.
Secondo l’ultimo rapporto congiunto di ONU, UE e Banca Mondiale, il costo della ricostruzione supera i 53 miliardi di dollari… Il governo palestinese, a sua volta, ha presentato un piano quinquennale da 67 miliardi per la “nuova Gaza”. E nel mondo delle imprese candidate a fare la “Ricostruzione” circola già un numero ancora più alto: 80 miliardi come valore complessivo del business logistico legato alla ricostruzione.
Aziende italiane come Webuild, Saipem e Buzzi Unicem sono state citate come possibili partner del “Progetto Rinascita”. Il linguaggio usato dai media economici parla di “opportunità”, “rilancio”, “innovazione urbana”. Ma la domanda resta: chi ricostruisce per chi? Nei documenti preparatori non si parla della popolazione superstite, ma di “aree di sviluppo a governance speciale”.
Tradotto in italiano corrente: zone commissariate, controllate da capitali esteri… del resto anche un chiacchierone da bar dello sport si chiederebbe: “Ma ci vogliono tutti ‘sti miliardi per far tornare i Palestinesi a Gaza?”. Certo che no! E’ lapalissiano. Sono per ben altro.
È qui che il marketing della guerra mostra il suo volto: trasformare l’annientamento in business. Le macerie diventano asset, la devastazione un’occasione di branding geopolitico.
Ucraina: lo stallo come strategia
A migliaia di chilometri, l’Ucraina vive un conflitto che non è pace ma neppure guerra totale. Le linee del fronte oscillano appena. La guerra si è normalizzata e nel Deep Web alcuni giornalisti economici sono certi che dietro questa normalizzazione c’è -a monte di tutto- un accordo tra Trump e Putin, un accordo commerciale, di soldi, tutto a danno dell’Ucraina, data già per spacciata…
Il 18 ottobre 2025, a Washington, l’incontro tra Trump e Zelensky è stato definito “duro”: niente missili Tomahawk, promessi e poi ritirati. Trump ha liquidato la questione con una frase secca: “Ne abbiamo bisogno anche noi.” Un dietrofront che mostra la nuova linea americana: ridurre i costi, allungare i tempi, mantenere la dipendenza… questo in teoria, ma nel consiglio di Trump di cedere tutto il Donbass a Putin, c’è il bacino tra i più grandi d’Europa di carbone, e poi ferro, manganese, mercurio, litio, uranio: risorse fondamentali per l’industria pesante, le batterie e l’elettronica strategica. Putin le vuole e Trump gliele vuol dare, controllarle significa avere autonomia energetica e potere contrattuale sull’Europa.
Nel frattempo, Kiev prepara un contratto per acquistare 25 sistemi Patriot, segnale che il conflitto è destinato a durare. Putin, dal canto suo, non ha fretta: preferisce una guerra cronica che logori l’Occidente, più che una vittoria rapida. L’Ucraina rischia così di diventare un laboratorio geopolitico permanente, mantenuto in vita da aiuti, armi e fondi d’emergenza.
Anche qui, come a Gaza, la parola d’ordine è “ricostruzione”: non dopo la guerra, ma durante. L’economia del conflitto è già in funzione -appalti, logistica, infrastrutture militari- e muove miliardi. Lo stallo, più che un fallimento strategico, è diventato un modello di sviluppo.
L’Occidente in crisi con le sue origini illuministiche
L’Illuminismo, che aveva posto la ragione al centro della civiltà occidentale, oggi è sotto assedio. Le sue conquiste -il pensiero critico, la libertà individuale, la fiducia nel progresso umano-vengono erose da un nuovo feudalesimo digitale e finanziario. Le superpotenze non cercano più il consenso razionale dei cittadini, ma il loro assenso emotivo, ottenuto con la manipolazione delle paure e delle appartenenze. La scienza stessa è piegata al potere: da motore di emancipazione è diventata strumento di controllo.
Negli Stati Uniti, Donald Trump guarda con invidia ai modelli autoritari di Russia e Cina, dove il potere non deve giustificarsi né negoziare. Così smantella, pezzo dopo pezzo, quei “checks and balances” (“controlli e contrappesi”) che fecero grande la democrazia americana. La borghesia illuminata, che un tempo difendeva il lavoro e la cultura è scomparsa, sostituita da élite speculative senza radici. Il mondo si allontana dalla luce della ragione e torna verso l’ombra dell’obbedienza, dove l’efficienza conta più della libertà e la verità non è più cercata, ma imposta.
E infine -voilà– il business della Rinascita
E quindi la “Rinascita” non è più un concetto etico, ma una linea di bilancio. Chi paga? Stati, banche, fondi sovrani, istituzioni internazionali. Chi incassa? Multinazionali, contractor, governi amici.
Nasceranno città-vetrina e quartieri di lusso, mentre i superstiti resteranno invisibili. Le parole chiave saranno sempre le stesse: Sviluppo & Innovazione. In realtà, sarà colonizzazione economica.
Gaza, se pure non sarà annessa, vivrà decenni di commissariamento economico mascherato da progresso. L’Ucraina, salvo crolli interni, resterà un conflitto congelato con un’economia artificiale.
Viviamo su un pianeta che ha normalizzato la guerra come condizione di sviluppo. La guerra è marketing, una cinica campagna pubblicitaria: ha i suoi storyteller (“liberazione”, “sicurezza”, “rinascita”), i suoi target di pubblico e i suoi testimonial politici. Le macerie sono il set, le vittime le comparse, i fondi internazionali la cassa in regia. Tutto è business, persino il dolore.
E come tutte le operazioni di marketing, anche queste in atto vendono futuro, ma nel frattempo consegnano solo rovine… da ricostruire.
Per chi volesse saperne di più…
- ONU, “Gaza Situation Reports”, 2024-2025
- Amnesty International, Human Rights Watch, dossier 2025 su Israele/Palestina
- Haaretz, inchieste interne sull’indirizzo politico del governo israeliano
- Meduza (Russia indipendente), report su stallo in Ucraina
- The Guardian, New York Times, Al Jazeera, analisi 2024-25 su conflitti in corso
- Informazioni raccolte da una chat riservata nel deep web con giornalisti israeliani, russi e di altre aree non allineati ai rispettivi governi

