Per chi continuare l’impegno

Titola significativamente “Fallimenti” Goffredo Fofi l’introduzione del 2019 al suo “L’oppio del popolo”, una raccolta di scritti e interventi variamente ispirati e pubblicati in tempi diversi e per diversi fini. Fofi è l’intellettuale ‘disorganico’, l’ispiratore di iniziative culturali, il fondatore di riviste (oggi “Gli asini”, ieri “Lo straniero”, “Linea d’ombra”, “La terra vista dalla luna”, “Quaderni piacentini”…), il militante inquieto che ha attraversato i movimenti sociali e culturali dalla seconda metà del secolo scorso a oggi, l’allievo di Aldo Capitini e di Danilo Dolci che si chiede: “E se la cultura, in tutte le sue forme ‘non radicali’, che non guardano all’origine dei mali e non ne cercano il rimedio, non fosse altro, oggi, che lo strumento privilegiato del dominio, lo strumento di cui il potere si serve per asservirci, per farci accettare l’inaccettabile?” E allora: perché continuare l’impegno civile, per chi farlo?

Tempo di lettura 3 minuti

«Per chi si è occupato durante una vita di cinema, letteratura, teatro, arti, e di scuola, editoria, giornalismo, intervento sociale e intervento politico nella chiave di una militanza convinta e movimentista, non partitica – ma da dilettante più che da specialista e per gran parte da autodidatta, e dal basso e dal dentro, e rifuggendo da impegni istituzionali e dirigenziali ma in rapporto con le grandi agenzie della comunicazione per ragioni di sopravvivenza;

per chi, non aspirando ad alcun potere, politico o intellettuale e tanto meno accademico, ha partecipato per più di cinquant’anni al lavoro di riviste estranee a ogni logica chiusa o di parte, e a gruppi che hanno considerato le riviste uno strumento per la circolazione di conoscenze e idee più esatte e più giuste, un incontro tra città e province, uno scambio tra generazioni, competenze e vocazioni;

per chi è cresciuto negli anni delle grandi speranze della nostra storia e dell’altrui, ed era convinto di potervi in qualche minimo modo contribuire; negli anni della ricostruzione, della Costituzione, della convinzione che solo con l’educazione si potesse costruire e vivere una vera democrazia; gli anni delle rivoluzioni e delle guerriglie, della decolonizzazione, della “coesistenza pacifica” tra i due blocchi della guerra fredda, ma anche gli anni delle “nouvelles vagues”, e di una generazione che voleva contare e che si ribellò all’asfittica e classista (e razzista e maschilista) cultura ereditata dal passato, quella in definitiva della guerra fredda;

per chi ha cercato di agire dall’interno dei movimenti, per difenderne e diffonderne le idee migliori, con la conseguente pressione sui partiti, quando c’era la sinistra e per quanto ambigue fossero le sue scelte – pessime fra tutte quelle dei maniaci dello “sviluppo” e più tardi della privatizzazione e delle nuove tecnologie della “comunicazione”;

per chi ha cercato anche affannosamente e spesso sbagliando di distinguere nel “nuovo” tra quel che sembrava portare libertà solidarietà pace e quel che al contrario annunciava nuove oppressioni;

per chi ha cercato di capire il nuovo fenomeno delle migrazioni di massa, anche perché figlio di emigrati, i cui genitori sono sepolti in terra francese, e ha visto i modi più sani e più saggi di accogliere, rispettando le differenze e le culture, da parte di un paese che al contrario del nostro ha fatto una rivoluzione borghese e vissuto la Riforma;

per chi crede di aver capito quanto avesse ragione Simone Weil quando diceva che il sogno dell’uomo del Novecento era di diventare una macchina eterodiretta, e ha potuto constatare il trionfo della tecnologia sulle coscienze, la capacità del potere di servirsi della cultura, chiamata abusivamente comunicazione, ai fini del dominio;

per chi non vede molta differenza oggi in Italia tra la massa degli intellettuali e quella degli operatori sociali – i primi che dicono “io io”, e i secondi che dicono un piccolo “noi” poco convinto, anche se coprono ancora una funzione importante di aiuto a emarginati e sofferenti, nell’assenza (nell’assassinio) del welfare;

per chi è arrivato alla convinzione, antica anche questa, che l’uomo è lupo all’uomo e che non è solo la società (la borghesia, dicevamo un tempo) a determinare la Storia;

per chi è disgustato dalle retoriche dei professori e dei guru e dei giornalisti e degli scrittori e dei registi di riuscire a far merce e carriera perfino dell’apocalisse, delle paure che tuttavia pervadono l’inconscio dei milioni e la coscienza dei pochi;

per chi nonostante l’avvilimento dei fallimenti subiti e veduti, che hanno comportato la morte fisica e atroce di milioni di persone, crede sia un dovere continuare a resistere e lottare, secondo l’aureo insegnamento di Gramsci, da strappare però alla retorica dei suoi ipocriti elogiatori, del “pessimismo della ragione e dell’ottimismo della volontà”;

per chi crede ancora nel dovere della sfida, della non-accettazione del mondo così com’è, e ricorda con riconoscenza i grandi ribelli di tante generazioni che hanno cercato in passato i modi di difendere, tempo per tempo, verità, libertà, giustizia, pace, come cerca affannosamente di fare ancor oggi, anche se con più disperazione che in passato ma sempre col sentimento della necessità di reagire, più doverosa e indispensabile che mai, e tra loro considera con maggiore affezione chi ha cercato di ribellarsi con i modi della nonviolenza e della disobbedienza civile, senza peraltro disconoscere il valore di chi ha creduto che “solo violenza aiuta dove violenza regna”;

dunque: per uno come me, e magari più intelligente e meno sconcertato di me, la cultura appare oggi come un campo di battaglia ancora possibile, ma fuori da ogni illusione di vittoria e partendo dalla constatazione, per cominciare, di quanto sia stato e sia facile per il potere di servirsi della cultura – che non è mai univoca anche se oggi si è riusciti a farla sembrare tale – cambiando di segno alla sua storia e illudendo milioni di persone che di cultura vivono di una sua forza ancora liberatoria, non evasiva e perfino necessaria. Facendone facilmente dei complici nella manipolazione, nel dominio. È un lavoro, ancora una volta, di cui devono farsi carico minoranze salde nelle loro persuasioni, convinte della necessità e dell’urgenza dell’azione, nauseate dalle compromissioni universitarie e affini, dalla lotofaga insipienza dei predicanti e idealizzanti, degli accettanti.»

[Goffredo Fofi, L’oppio del popolo]

Previous Story

Eva Cantarella, la cultura di destra e il patriarcato

Next Story

Levi, Il “galateo particolare” della Germania hitleriana