Ma l’occhio vede solo il mondo?

L'importanza di una tesi "inclusiva" che comprenda, nella visione, anche l'inconscio

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La conferenza, tenuta dal professor Sergio Givone sul tema Saper vedere oggi, ospitata nel Salone delle Adunanze dell’ Accademia delle Arti del Disegno, a marzo dello scorso anno, ha sollecitato punti di riflessione, sui quali è opportuno soffermarsi. Infatti, il relatore, con una non comune capacità narrativa, è stato molto attento a tenere insieme i due registri, filosofico e storico critico.

Anche se il titolo richiama il ben noto libro di Matteo Marangoni, Saper vedere, apparso in prima edizione nel 1933 e più volte riedito, la traccia seguita dal Nostro è ben lontana dal formalismo, d’impronta wölffliniana, che supporta il pensiero di Marangoni. D’altra parte, anche il titolo dato a questo mio commento mi è stato sollecitato da un’affermazione di Merleau-Ponty, tratta dal suo L’Œil et l’Esprit, quando l’autore della Fenomenologia della percezione chiama in causa direttamente, l’occhio dell’artista e, dunque, il bulbo oculare, l’organo di senso esterno. Scrive il filosofo: l’occhio “vede il mondo, ciò che manca al mondo per esser quadro […]”, aggiungendo che esso è “ciò che è stato toccato da un certo impatto con il mondo, e lo restituisce al visibile mediante i segni tracciati dalla mano”.

Appare subito evidente che, con l’aggiunta dell’avverbio oggi, Givone abbia voluto spostare l’analisi al di là della forma acquisita, indirizzandoci a calarci nel tempo presente, con argomentazioni che hanno, sostanzialmente, sconfessato il preconcetto di Marangoni verso le aperture della critica d’arte: preconcetto palese nell’introduzione all’edizione del 1947, nelle frasi ironiche, destinate a chi guardava con interesse alla psicanalisi nell’esercizio della critica, oppure nell’attenzione al ‘contenuto’, questo in anni nei quali il contrasto tra realismo sociale (direi ideologico) e astrattismo si fa più evidente.

Givone amplia la riflessione di Marangoni

e la attualizza nel nostro presente digitale

Il filosofo Sergio Givone

Givone ha, dunque, dilatato il perimetro della riflessione, spingendo l’esercizio del ‘vedere’ in direzione di una maggiore relazione con la complessa molteplicità che tale esercizio assume nel presente digitale. Di questa riflessione due concetti mi hanno particolarmente colpito e sui quali, anche se brevemente, gradirei tornare: la definizione del ‘vedere’ (vedere sapiente) – perché, afferma Givone, “lo sguardo è sapiente e quindi esclusivo…e mostra la realtà” – e la dichiarata “necessità di uno sguardo inclusivo”.

L’avvio, in questo caso, è sempre difficile. Lo è, maggiormente, quando al di là degli aspetti teorici, alimentati da linguaggi diversi tra loro, l’argomentazione implica, lo è per me ancora oggi, il coinvolgimento, in prima persona, nella pratica  del ‘vedere’, intesa come prassi esperenziale. “Fare esperienza – sostiene Heidegger in Fenomenologia dell’intuizione e dell’espressione – non è acquisire nozioni, ma il vitale essere coinvolti, l’essere preoccupati”, condizione che avverto con entusiasmo partecipativo, quando l’autonomo movimento del mio occhio si muove all’interno degli ateliers di artisti contemporanei, in modo particolare in quelli dei giovani alle prime esperienze espositive; è il farsi coinvolgere dal ‘vedere’, assunto quale necessità di disporsi (porre in gioco le proprie conoscenze), nel tempo, in quello della ‘durata’ bergsoniana, ma anche nella proiezione di un futuro, inteso nell’accezione avanzata da Augé, quale tempo di coniugazione. “Il futuro – afferma quest’ultimo – è la vita che si vive individualmente”. Vedere è di per sé un avvenimento, qualcosa che avviene e risponde alla necessità di sollecitare processi rigenerativi, mirati ad aggiungere tempo alla coscienza: elaborare il futuro. Futuro e avvenire sono, come sintetizza il filosofo francese, “due espressioni della solidarietà essenziale che unisce individuo e società”. Inquadrato da questa angolazione, il  ‘vedere’ (come sguardo inclusivo) coinvolge la presenza della memoria, di quella infinita sequenza di tempo/immagine – file, per il dizionario del digitale – che ciascuno accumula nella propria mente. “Non potremmo vivere la nostra relazione con il mondo – scrive Ferdinando Scianna a proposito della fotografia, ma tale concetto si estende in tutte le direzioni del pensiero umano – se non fossimo capaci di elaborare tutti questi istanti in termini di continuità e in termini di memoria”.

L’affermazione di Scianna mi spinge a non condividere l’idea che “lo sguardo è sapiente e quindi esclusivo”, perché esso “mostra la realtà”.

Ma cosa s’intende per realtà? E cos’è oggi? È, come suggerisce Scianna, la compresenza di memoria e percezione?

Il poeta di Recanati, per esempio, nei primi versi della celebre lirica L’infinito, palesa un vedere che non è reale, bensì parte della conoscenza. “Sempre caro mi fu quest’ermo colle, / e questa siepe, che da tanta parte / dell’ultimo orizzonte il guardo esclude”. Tanta parte, non è una dimensione che il poeta vede, bensì immagina, in quanto la sua conoscenza, la sua memoria la inquadra attraverso il processo immaginativo. Infatti, subito dopo chiarisce: “Ma sedendo e mirando, interminati / spazi di là da quella, e sovrumani / silenzi, e profondissima quiete / io nel pensier mi fingo [l’immaginazione], ove per poco / il cor non si spaura. […]

Per Leopardi, la realtà è parte di uno ‘sguardo inclusivo’, ove l’immaginazione si costituisce come realtà emotiva. Non diversa è la realtà che, all’impatto, ci appare concreta, come nella narrativa di Gabriel García Márquez. Penso al gioco di figure che lo scrittore organizza sulla superficie dello specchio, tra reale e virtuale, nel racconto Dialogo allo specchio, del 1949, nella raccolta dal titolo Occhi di cane azzurro: il Sé che dialoga con la sua immagine allo specchio.

In un passaggio di lui allo specchio, prima di accingersi a radersi la barba, si scorge la capacità, cifra della scrittura di Márquez, che la realtà ha di insinuarsi nella fantasia. Ecco quanto narra: “Sorrise. (Sorrise) Mostrò – a se stesso – la lingua. (Mostrò – a quello della realtà – la lingua.) Quello dello specchio l’aveva pastosa, gialla: «Stai male di stomaco», diagnosticò. Sorrise di nuovo. (Sorrise di nuovo.) Ma ora lui riuscì a notare che c’era qualcosa di stupido, di artificiale e di falso in quel sorriso che gli veniva restituito. Si lisciò i capelli (Si lisciò i capelli) con la mano destra (sinistra), per, subito dopo, volgere via lo sguardo vergognoso (e scomparire)”.

La realtà occupa, dunque, una parte secondaria, così come lo è nel Calvino dei racconti, e si disperde nell’immaginazione (che, però, da essa trae la struttura percettiva), come avviene nelle fiabe.

Il concetto di “sapiente” implica

una partecipazione del pensiero

Il pittore Pablo Picasso

Da questi esempi deriva la mia convinzione che il “vedere” è innanzitutto un ‘vedere inclusivo’, cioè complesso e che implica anche l’inconscio: è complesso com’è il nostro esistere. Il concetto di ‘sapiente’ implica una partecipazione del pensiero che è già elaborazione successiva all’incipit della psiche.

In chiusura, mi avvarrò dell’input suggerito dal professor Givone, quando afferma che Braque ci fa muovere dentro lo spazio e che quindi “è lo spazio che dispone di noi”, facendoci fare “un’esperienza architettonica”.

Ci sono dipinti di Braque, nei quali l’accertamento della realtà si segnala come esperienza non architettonica, vale a dire di disposizione nello spazio, bensì quale percezione tattile del fenomeno: opere in gran parte realizzate nel 1912, lo stesso anno nel quale Picasso, in primavera, con  Natura morta con sedia impagliata, apre la stagione del collage e poi del cubismo sintetico.

Se Picasso muove dalla configurazione analogica, quindi fa un richiamo memoriale che attiva un corto circuito tra realtà (la corda in funzione di cornice), virtuale resa dell’intreccio di vimini (in sostanza una cerata stampata) e disegno/dipinto quale elaborazione dell’immaginazione, in Braque la realtà non è più traslata, bensì si dà come fenomeno, avvenimento. In Valse, un dipinto del 1912, oggi a Venezia nella collezione della Fondazione P. Guggenheim, l’artista introduce, nella parte alta dell’ovale, piccole campiture rese mischiando la sabbia con il colore ad olio. L’effetto specchiante dei microscopici granelli riflette una luce che si organizza o è organizzata dall’ambiente nel quale è calato il dipinto, ne riflette la vita e i suoi cambiamenti. L’artista tesse una relazione di continuità, avanza cioè una visione inclusiva della composizione pittorica che detta la sovrapposizione dei piani/punti di vista spaziali, il legno reso a trompe-l’oeil e la luce (reale) rimandata dalla superfice specchiante.

A proposito della pittura, in particolare soffermandosi su quella di Monet, Proust scrive: “Noi siamo lì, chini sullo specchio magico [così lo scrittore definisce i quadri], ce ne allontaniamo, cercando di bandire qualsiasi altro pensiero, di comprendere il senso d’ogni colore, ciascuno dei quali richiama nella nostra memoria impressioni provate in passato, le quali si associano in un’architettura altrettanto aerea e multicolore che i colori sulla tela, costruendo nella nostra fantasia un paesaggio”.

Massimo Bignardi

Classe 1953, ha studiato, con Enrico Crispolti, Storia dell’arte contemporanea. Già professore di ‘Storia dell’Arte contemporanea’, presso Università di Siena ove, dal 2008 al 2016, ha diretto la Scuola di Specializzazione in Beni storico artistici. È stato commissario della XI e XIV ) Quadriennale d’Arte Nazionale. È, dal 2002, direttore del Museo-FRaC Baronissi. Di recente è stato nominato, per il trimestre 2023-2025, curatore del Premio Internazionale Bugatti-Segantini.