L’occhio di Marco Vitale sulla polvere del tempo vivo

"La strada di Morandi" è una riflessione sul tempo, tema che attraversa le sette sezioni che formano il libro. Il poeta si chiede spesso dove siano finiti gli eventi, le figure, i momenti (significativi solo per chi li ha vissuti e a volte solo nel ricordo) che hanno dato sostanza al presente, che appare il solo tempo vivo, che chiama a raccolta quanto già è accaduto

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Colpisce dei versi di Marco Vitale, in particolare nella raccolta La strada di Morandi, recentemente pubblicata per i tipi di Passigli (112 pp, 14.50 euro), la grazia lieve e malinconica, il tono che definiremmo in diminuendo. Va detto che questa levità non è solo cifra stilistica, peraltro caratterizzante l’intera opera dell’autore, ma un modo di osservare il mondo, segno insomma peculiare dello sguardo, che porta con sé un pensiero sull’agire degli esseri umani, sulla sistemazione e determinazione dei loro atti nei confronti del procedere degli eventi. Le cose e gli uomini che sono protagonisti di queste liriche vengono così colti in un attimo di sospesa rassegnazione, quasi che, come soprappensiero, fossero spettatori dello scorrere della vita, propria e altrui. Il transito è veloce, le tracce appena si intravedono, ma è proprio in questa conferma di prossima evanescenza, che tocca tutto e tutti, nel destino di assenza che ogni vita sembra portare con sé, che i versi si appropriano di una sorta di incantata rivelazione. Si tratta in ogni caso di fugaci epifanie che non conducono all’acquisizione di certezze: tutto è sempre precario e fuggevole, ma è proprio in questa tramortita temporaneità il senso della grazia che il poeta sa cogliere e che ci trasmette.

Il poeta Marco Vitale

Appare pertanto significativo e rivelatore il titolo del volume. La strada a cui si fa riferimento è il viottolo bianco che conduceva alla casa estiva di Giorgio Morandi, a Grizzane, sull’appennino emiliano. L’artista fu molto rattristato quando venne asfaltata, perché in questo modo spariva, con il bianco sentiero, anche la polvere che al passaggio dei mezzi si alzava e si posava sulla vegetazione limitrofa: “Sì, forse soltanto nei romanzi / se durarono e giunsero / per le strade prospettiche / un prima e un dopo / stabilirono un tempo / che non fu mio ma sale / come la vecchia strada di Morandi // il tratto lieve opaco della polvere”.

È evidente come la polvere sia, per Morandi come per Vitale ‒ oltre che elemento visivo e presenza più o meno concreta, come avviene nelle opere del pittore ‒ segno del passare del tempo, quel tempo che, come è detto nei primi versi della lirica, solo nei romanzi può assumere un senso lineare e dunque far immaginare che gli eventi possano avere un inizio e una conclusione.

La riflessione sul tempo è un tema che attraversa le sette sezioni che formano il libro. Vitale si chiede spesso dove siano finiti gli eventi, le figure, i momenti (significativi solo per chi li ha vissuti e a volte solo nel ricordo) che hanno dato sostanza al presente, che appare il solo tempo vivo, che chiama a raccolta quanto già è accaduto, cerca nel passato i volti e le voci degli amici. “Come dimenticare, amico, quella neve / caduta nell’inverno dell’85?”, ha inizio la poesia dedicata al compianto poeta Alberto Toni; “Dove sarà quel gatto che superbo / ci fissava silente tra le canne / fluviali e la terrazza / si avviava a un meriggio dolcissimo / di stagione? Dove sono gli amici / di quel tempo lontano che serrava / la risacca degli anni e la poesia?” è l’incipit della lirica in cui compaiono, ammaliati dalla presenza del gatto, Dario e Enrico, cioè Bellezza e Panunzio.

ll richiamo al tempo che non c’è più, ma che riemerge dalla memoria, non è solo nostalgia dell’età della giovinezza e della presenza di quei poeti, allora giovani, che sono “rimasti si direbbe senza un sogno / intero”, è il tentativo di sostanziare sulla carta le tracce di quell’epoca di vitalità, di proiezione nel futuro, di malinconica grazia appunto, che vide protagonista un’intera generazione. Insomma Marco Vitale ci parla anche di un mondo che non c’è più, sbriciolato sotto i colpi di un individualismo sempre più incalzante, ci racconta di una “società delle lettere” sparita insieme alla convinzione che la letteratura possa servire se non a cambiare il mondo, almeno a comprenderlo meglio, nella consapevolezza che il mondo sono soprattutto gli altri, donne e uomini, esseri viventi, oggetti.

Le poesie di La strada di Morandi originano anche un dialogo con persone e cose che non ci sono più; “Ci sarai stato pure tu / scendendo alla stazione in questo / vecchio, chiaroscuro caffè / tra questi legni che conservano / un’idea di dopoguerra / e un tempo che mi pare così tuo / Vano saperne qualcosa”. Il poeta posa lo sguardo su quel tratto di terra di nessuno, dove le cose sembrano in procinto di essere o di accadere, ma dove nello stesso tempo le immagini sono sul punto di sbriciolarsi.

La grazia malinconica della poesia di Marco Vitale non si nega a un pensiero profondo e meno che mai nasce da un’ingenua adesione all’esperienza esistenziale, ma poggia su un solido substrato, colto e costituito da una silenziosa opera di accumulazione. Lo dimostrano i riferimenti, trasparenti a volte, più spesso velati o solo sussurrati, ai maestri del Novecento italiano (Sereni, in primis, e Bertolucci, come sottolinea nella prefazione Gabriella Palli Baroni, e con loro, aggiungerei, il Montale di Satura e Giampiero Neri e Nelo Risi), ma anche a tanti autori delle letterature europee, soprattutto di lingua francese. Vitale del resto, come si evince  dalla sezione Quaderno francese, è traduttore sensibile e curioso. Nel 2018 ha pubblicato per Aragno il volume antologico Gli anni, che raccoglie i libri di poesia precedenti La strada di Morandi, a partire da Monte Cavo, che segna l’esordio poetico nel 1993.

 

Marco Vitale, La strada di Morandi, Passigli

 

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