Il marketing del governo Meloni: la realtà bussa alla porta della narrazione

Il voto delle Regionali è un promemoria, un post-it attaccato al frigorifero di casa Meloni. La destra non è crollata, ma ha perso consenso in modo misurabile, concreto, fastidioso. Quel tanto che basta per capire che la giostra sta iniziando a perdere velocità. Ci ricorda che il marketing funziona finché non arriva il momento di tirare le somme.

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C’è un momento, per ogni governo, in cui la narrazione comincia a vibrare, perdere qualche vite e fare quel rumore sordo che di solito ignoriamo finché è troppo tardi. All’inizio è un leggero ronzio, come il frigorifero a notte fonda. Poi ti accorgi che non smette, che ti segue ovunque, e allora capisci che forse è il caso di aprire lo sportello, mettere la testa dentro e guardare cosa succede.

Ecco, il governo Meloni è arrivato a quel punto: il racconto continua a pompare, ma la realtà ha iniziato a bussare, e non con le nocche, ma con i gomiti: ha fretta. Per quasi tre anni l’esecutivo era convinto di aver trovato la formula magica della politica contemporanea: proclami tanti-sostanza poca. Si era sull’onda dell’entusiasmo e bastava un video deciso, un post tagliente, una conferenza senza domande, un reel e via così: consenso blindato.

Solo che la politica non è una serie Netflix: se usi sempre la stessa puntata, il pubblico sospetta, cambia serie, inizia a pensare che forse dietro la scenografia non succede poi molto di più di quello che si annuncia a chiacchiere. E infatti quando sono arrivati i risultati delle elezioni del 23 e 24 novembre, l’avviso è stato chiaro: nessuna disfatta, nessun terremoto, la Meloni è lì salda, ma… c’è un calo che fa rumore. È una crepa nella rupe che manda un messaggio: il marketing funziona finché non arriva il momento di tirare le somme. Le urne sono maleducate, hanno il vezzo di contraddire i sondaggi amici.

Il trio delle meraviglie

Parlare di questo governo senza passare per i suoi tre protagonisti è impossibile. Ognuno è diventato una maschera, un personaggio di una commedia politica, già vista altrove peraltro.

Salvini: il pendolo eterno

È il ministro oscillante: un giorno fa il ministro (si fa per dire), quello dopo torna alla sua passione: la propaganda da sagrestia. Ha scoperto che governare è un mestiere faticoso fatto di carte, norme e soprattutto impegno intellettuale, e allora scappa e torna il Salvini “di sempre”, quello da cazzatelle a pioggia, selfie compulsivi e indignazioni inutili. … la testa è sempre quella del Papeete, e doveva essere ancora lì quando dopo le ultime elezioni ha annunciato l’affermazioneelettorale: in Campania e in Puglia ha numeri ormai irrilevanti mentre la vera batosta l’ha presa in Veneto se non fosse stato per la lista Zaia… i Mojito – quando sono tanti – fanno questi scherzi, il Paese, però, ha smesso di divertirsi: i treni non migliorano, i ponti non spuntano e il mare continua a sbarcare migranti.

Tajani: il soporifero di professione

È il british del governo: il moderato, il diplomatico, quello che parla col tono di come stesse inaugurando ogni giorno una fiera campionaria di articoli cimiteriali, bare comprese. Tono perfetto, postura impeccabile. Peccato che sotto il velluto ci sia una linea politica che è la versione sbiadita di tutte le destre europee, il tutto con una imbarazzante comicità che fa curriculum: “il diritto internazionale fino a un certo punto… il ponte sullo Stretto per le evacuazioni in caso di attacco da Sud”… “La transizione ecologica sì, ma senza esagerare”… non c’è nessun problema di salari bassi: basta far crescere l’economia”… quest’ultima è da vero statista, chi avrebbe mai pensato fosse così facile?

La Premier: la tosta con l’elmetto in testa

E poi c’è lei, Giorgia Meloni: regista, protagonista, intelligente slalomista. Ha costruito il suo potere su una miscela riuscita di identità, fermezza e racconto emotivo. Il problema è che la realtà è arrivata alla porta: abolire la Fornero dal palco è facile, abolirla davvero rischiava di far saltare i conti pubblici. Annunciare l’azzeramento delle accise da un’auto al distributore è un gesto liberatorio, ma poi farlo mentre devi far quadrare il bilancio diventa un suicidio. Così, alla fine, le accise sono aumentate, la Fornero è stata irrigidita e la tanta strombazzata rivoluzione fiscale non pervenuta.

Ma le promesse sono come lo yogurt: hanno una scadenza

La destra aveva costruito una fetta importante del suo consenso sulla guerra santa contro quelle “ingiustizie”. Poi, arrivata al governo, ha scoperto che senza quei meccanismi lo Stato non chiude i conti. Sulle accise non hanno nemmeno provato a raccontarla, era una cazzata troppo grande: i cartelli dei distributori parlano e la memoria degli automobilisti torna nitida quando fanno il pieno.

Il punto non è l’errore. L’errore ci può stare. Il punto è che se per anni dipingi certe misure come il male assoluto, quando poi le mantieni – o le peggiori – quel male diventi tu, proprio tu.

Il voto del 23-24 novembre non è stato una rivolta: è stato un promemoria, un post-it attaccato al frigorifero di casa Meloni. La destra non è crollata, ma ha perso consenso in modo misurabile, concreto, fastidioso. Quel tanto che basta per capire che la giostra sta iniziando a perdere velocità.

Non è un voto anti-Meloni, è un voto che dice: “Abbiamo ascoltato … ora fate qualcosa?”. Gli elettori di destra (per fortuna di questo governo) in genere hanno memoria cortissima, perché più che di fatti concreti si saziano di entusiasmi istantanei, di inspiegabili miti e di arringhe al vetriolo… ma non tutti, c’è quella massa ondivaga che non urla, riflette e semplicemente sposta la matita. E il messaggio è semplice: l’epoca in cui bastavano proclami è finita. Adesso contano le cose fatte, non dette.

Il paradosso della destra: tanta muscolarità, pochi muscoli

Quello che succede oggi in Italia lo abbiamo già visto altrove. Stendendo un pietoso velo sul caso Trump -che Dio lo abbia in Gloria- negli Stati Uniti ci sono stati presidenti seri come Johnson, Bush padre, Reagan e persino Clintonche arrivarono alla Casa Bianca convinti di poter rimettere in sesto l’America in cento giorni. Poi scoprirono che una Democrazia con la sua Costituzione ha lo strano e insopportabile vizio di avere pesi e contrappesi… ed è più tosta e testarda degli slogan.

È lo stesso paradosso che vive oggi la destra italiana: proclami roboanti, riforme annunciate come guerre di liberazione… e poi il crash sul muro della realtà. Conti pubblici rigidi, vincoli, regole europee, accise che non scompaiono, pensioni che non si toccano.

La destra italiana non sa dire “Non possiamo farlo: non è epico, né televisivo”…

E la promozione di Moody’s? Il 2026 arriva di gran carriera.

Se i conti appaiono in ordine e Moody’s nel 2025 promuove l’Italia a Baa2 è cosa giusta e meritoria, su questo non ci piove. Ma se per raggiungere questo merito significa aver tolto benefit e inciso ancora di più sul potere d’acquisto della gente che già non arriva a fine mese perché deve sostenere spese che nel 2022 non aveva, come pagare l’energia elettrica +68% e il gas +42%, pagare la Sanità privata per le liste d’attesa che si sono allungate ancora di più e fare una spesa che corre più della rivalutazione degli stipendi… è evidente che nelle urne non ci va Moody’s.

Il rischio è che il calo di novembre non sia un episodio. Sappiamo già ora che il 2026 porterà crisi internazionali, economia traballante e riforme delicate. E lì il racconto non basterà più. Perché a un certo punto la politica funziona come la fisica: puoi spingere una bolla di sapone in alto ma la gravità, anche se lentamente, la riporta giù. Non per cattiveria ma per natura: è il suo lavoro.

Il governo Meloni non è in caduta, ma la prima crepa si vede. Non nei talk show, non nei post, non nelle conferenze con domande telefonate… Si vede nelle urne. Un luogo molto più sincero di qualunque intervista senza vergogna fatta da Vespa e alla faccia di ogni sondaggio pagato bene e interpetrato meglio. E dalle urne viene fuori una realtà che bussa alla porta, non più fatta dagli entusiasmi del 2022 ma zeppa di problemi irrisolti. E questa volta non aspetterà fuori.

 

Carlo De Sio

Laureato in Scienze Politiche ed Economiche, con Master in Psicologia Sociale e Pubbliche Relazioni, quando ancora servivano a qualcosa. Ex pubblicitario pentito, esperto di marketing prima che diventasse una parola senza senso. Giornalista curioso per mestiere, pittore digitale per sopravvivenza emotiva. Ho vissuto i Caroselli veri e ora analizzo quelli truffaldini. Scrivo per chi ha ancora due neuroni e una sana diffidenza per il coro pubblico. Questo è il mio chiringuito mentale: se chi mi legge cerca miracoli, cambi grappa. Qui si serve solo pensiero liscio.

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