Giovani depressi e il cinema non ne “legge” il dramma

Secondo i dati ISTAT, il suicidio è oggi la terza causa di morte tra i 15 e i 29 anni. Il cinema offre un'opportunità per esplorare la complessità del disagio mentale. Tuttavia, questa rappresentazione talvolta scivola verso una semplificazione delle sfide legate alla fragilità psicologica, alimentando l'idea che l'instabilità mentale possa essere un segno distintivo di genio o seduzione

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Una scena del film "Vicky Cristina Barcelona" per la regia di Woody Allen

Negli ultimi anni, la salute mentale ha acquisito un ruolo preminente nel dibattito pubblico, diventando una questione di primaria importanza soprattutto tra i giovani. Questa evoluzione è stata accelerata dall’impatto devastante della pandemia di Covid 19 e dalle misure di confinamento che ne sono derivate. Il lockdown ha infatti interrotto bruscamente il corso della vita quotidiana, generando una condizione di isolamento prolungato che ha esacerbato il disagio psicologico, in particolare tra le fasce più vulnerabili della popolazione. Le conseguenze della crisi sanitaria si sono  estese ben oltre la sfera fisica, spalancando un vero e proprio fronte emergenziale sul piano psicologico. L’incidenza di ansia, depressione e disturbi emotivi ha raggiunto livelli allarmanti, segnalando la necessità di una riorganizzazione globale del concetto di salute mentale, anche e soprattutto per le generazioni più giovani.

Sono davvero troppe

le morti volontarie

Secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS), già nel 2019 i disturbi mentali rappresentavano una delle principali cause di disabilità a livello globale. La pandemia, tuttavia, ha catalizzato un’esplosione di patologie psichiche. The Lancet ha documentato nel 2021 un incremento del 25% dei casi di depressione e ansia nel primo anno di crisi pandemica, con i giovani e le donne tra le categorie più colpite. L’isolamento sociale, la perdita di routine, il prolungato ricorso alla didattica a distanza e l’iperconnessione digitale hanno contribuito a un diffuso senso di alienazione, soprattutto tra i giovani – compresi adolescenti e preadolescenti – , che hanno pagato un tributo altissimo in termini di benessere psicologico.

In Italia, l’Istituto Superiore di Sanità ha rilevato che 1 giovane su 4 ha manifestato sintomi compatibili con disturbi depressivi o ansiosi durante e dopo i lockdown. La fragilità preesistente è stata acuita, e la crescente richiesta di assistenza psicologica ha messo in crisi un sistema già carente. Disturbi della personalità, come il borderline o il disturbo ossessivo-compulsivo, hanno mostrato una recrudescenza significativa, spesso associata a stati d’ansia cronica e alla difficoltà di gestire emozioni estreme. Inoltre, disordini alimentari come anoressia e bulimia sono emersi in misura sempre più diffusa, sintomatici di un rapporto disturbato con il controllo di sé e del mondo esterno.

La fragilità della salute mentale giovanile, emersa con drammaticità durante il lockdown, affonda le radici in una condizione preesistente che caratterizza le generazioni nate tra la fine degli anni Novanta e l’inizio del Duemila. Il XXI secolo è stato segnato da eventi sociologici definiti mediashock – concetto sviluppato da Bolter e Grusin – che includono, tra gli altri, l’attentato alle Torri Gemelle nel 2001 e la crisi economica globale. Questi eventi, amplificati dalla costante sovraesposizione mediatica, hanno generato un vero e proprio trauma nel sistema umano, con conseguenze che si riverberano sul piano geopolitico, geofisico e, soprattutto, emozionale. Nel contesto del web 2.0, i giovani sono esposti a un flusso continuo e caotico di iperinformazioni, spesso violente e prive di filtri. Immagini di morti, suicidi, omicidi, incidenti e malattie circolano senza alcuna mediazione, contribuendo a uno stato di perenne vulnerabilità e fragilità emotiva. Questa condizione è ulteriormente aggravata dall’onnipresente possibilità di essere giudicati pubblicamente attraverso i social media, dove la critica, nascosta dietro l’apparente libertà di espressione garantita da un contesto democratico, assume spesso la forma di una moderna “gogna mediatica”. Entrarvi è facile, ma uscirne è estremamente complesso. Attribuire l’intera colpa ai social media, tuttavia, sarebbe una semplificazione. Questi ultimi, infatti, non creano una realtà parallela, ma la riflettono: sono uno specchio delle dinamiche sociali già esistenti. Evitare di riconoscerne l’influenza equivarrebbe a rifugiarsi in una narrazione edulcorata e disconnessa dalla complessità del mondo contemporaneo. Il problema va quindi ricercato in profondità, nei vuoti lasciati da un contesto sociale e politico instabile.

Sensazioni frustranti

e dolore intollerabile

A tutto ciò si aggiunge l’incertezza per il futuro, il peso del mito del successo e l’imperativo di ricostruire sulle macerie lasciate dalle generazioni precedenti. Questo impone alle nuove generazioni un incessante confronto, alimentando sensazioni di solitudine, fallimento e frustrazione, acuendo in modo preoccupante il disagio psicologico e il malessere esistenziale.

Recenti tragedie come quella di Niccolò Fraticelli, giovane tiktoker italiano, e Liam Payne, ex membro dei One Direction, evidenziano in modo drammatico questa crisi.

Il suicidio del ventunenne Niccolò, avvenuto il 14 ottobre, rappresenta il culmine di un dolore che si era manifestato in modo palese attraverso i suoi contenuti sui social media. Le sue pubblicazioni, viste retrospettivamente, assumono i contorni di un disperato grido d’aiuto lanciato in un mare di indifferenza.

“Io non ce la faccio più a reggere la bella facciata. Ho deciso di far cadere la maschera: io devo ammettere di essere una persona sola e triste, che in questo momento della sua vita sta soffrendo molto, che si ritrova ogni giorno a vivere con una fatica bestiale, non sapendo cosa fare della sua vita”.

I casi di Fraticelli

e di Liam Payne

Nonostante i segnali del profondo disagio psicologico di Niccolò Fraticelli fossero evidenti, molti dei suoi follower hanno risposto con superficialità e incomprensione. Commenti come “è solo una fase” o “passerà” si sono affiancati a reazioni ancora più preoccupanti, insinuando che Niccolò stesse manipolando la propria sofferenza a scopo di visibilità. Tali affermazioni, che accusavano il giovane di strumentalizzare il proprio dolore per ottenere un incremento di follower, dimostrano la diffusa incapacità di comprendere la serietà della condizione di disagio mentale. Anziché riconoscere l’autenticità di una richiesta di aiuto, molti hanno trasformato la sua sofferenza in un oggetto di cinico scetticismo, ignorando la necessità di supporto psicologico. In questo contesto, i social media non solo riflettono, ma amplificano il rischio di una sottovalutazione del disagio, creando una disconnessione tra la percezione del problema e la sua gravità clinica.

Parallelamente, la tragica vicenda di Liam Payne, ex membro dei One Direction, avvenuta solo pochi giorni dopo, getta luce su un’altra sfaccettatura di questa crisi. Payne, nonostante il successo globale, lottava da anni contro una depressione devastante e dipendenze da sostanze come crack e cocaina, cercando rifugio in una spirale di autodistruzione. La sua caduta mortale dal terzo piano di un hotel di Buenos Aires ha tragicamente svelato una fragilità psicologica che si era nutrita del peso della fama e dell’isolamento interiore. Payne, come Fraticelli, ci mostra l’invisibilità del dolore mentale, anche quando vissuto sotto i riflettori della notorietà, e mette in evidenza l’enorme divario tra l’immagine pubblica e le battaglie interiori.

Questi due casi, avvenuti a pochi giorni di distanza, non sono isolati: rappresentano l’apice di un’epidemia di sofferenza psicologica tra i giovani, che si manifesta sempre più frequentemente con esiti fatali. Secondo i dati ISTAT, il suicidio è oggi la terza causa di morte tra i 15 e i 29 anni, un segnale preoccupante di come la salute mentale sia diventata una vera e propria emergenza generazionale. Nel 2023, oltre 7.000 persone si sono rivolte al Telefono Amico Italia per gestire pensieri suicidari, una cifra che evidenzia l’inadeguatezza del sistema di supporto attuale, incapace di far fronte a una domanda in continua crescita.

Nonostante questa realtà devastante, la complessità della malattia mentale non è ancora chiara. Emblematico della costante edulcorazione a cui le patologie psicologiche sono sottoposte è il cinema e la sua romanticizzata – molto spesso erotica e sensuale – visione di questo disagio.

Quanto false le piste

del grande cinema

Film come quelli di Woody Allen presentano personaggi nevrotici, irrequieti, profondamente fragili, ma al contempo affascinanti. In Vicky Cristina Barcelona, il personaggio di Helena, interpretato da Penélope Cruz, incarna questo contrasto in modo emblematico. Helena è una figura magnetica, irrequieta e passionale, e la sua instabilità emotiva viene integrata nel fascino che esercita sugli altri, inclusa Cristina, interpretata da Scarlett Johansson. Il tentativo di suicidio di Helena, che dovrebbe segnalare la gravità del suo malessere, passa in secondo piano rispetto al modo in cui la sua presenza caotica scuote emotivamente i personaggi. La sua turbolenza interiore la rende quasi più autentica e libera, scatenando in Cristina sentimenti di inferiorità di fronte a un’intensità così travolgente. In questo contesto, il tentativo di suicidio di Helena viene visto quasi come un elemento seduttivo, che aggiunge al suo magnetismo piuttosto che metterne in luce il dolore. O ancora,  Jasmine in Blue Jasmine (Cate Blanchett), una donna fragile e dipendente da psicofarmaci, incarna un modello di instabilità mentale che diventa un tratto distintivo di fascino. La nevrosi, la fragilità, la vulnerabilità vengono trasposte in un’aura di irresistibile seduzione, accendendo nell’immaginario collettivo un’idea pericolosamente distorta della sofferenza psicologica.

In Ragazze Interrotte, Lisa, interpretata da Angelina Jolie, ricoverata in clinica psichiatrica per sociopatia, si configura come un personaggio complesso che funge sia da coprotagonista che da antagonista. Questa duplicità evidenzia la sua instabilità, oscillando tra il ruolo di guida e quello di distruzione all’interno del gruppo di ragazze in clinica. La sua ribellione e il disprezzo per le regole si intrecciano con una bellezza indomita, trasformandola in un’icona di libertà e audacia.

La sociopatia di Lisa e la sua ambivalenza la rendono un’icona di seduzione e indipendenza. La sua instabilità mentale non suscita compassione, ma diventa anche in questo caso attrazione magnetico incarnando l’archetipo della bella e maledetta.

Se la sofferenza

diventa seduttiva

Infine, la figura di Joker, interpretato magistralmente da Joaquin Phoenix, rappresenta uno degli esempi più emblematici della fascinazione cinematografica per la malattia mentale. Il suo disturbo ossessivo-compulsivo, unito a sintomi di depressione e schizofrenia, emerge in modo chiaro, eppure il personaggio non viene semplicemente visto come una vittima della sua condizione. Al contrario, la sua follia si trasforma in un elemento di fascino, rendendolo quasi un’icona di ribellione contro l’ordine costituito. La risata incontrollabile del Joker, derivante da una condizione neurologica e da uno stato di incontinenza affettiva noto come Pseudobulbar Affect, suscita compassione nelle prime fasi del film per poi lasciare spazio alla fascinazione nei confronti di un personaggio anarchico e distante dalle logiche che dominano la società contemporanea. Joker, pur nella sua fragilità, diventa il simbolo di una libertà provocatoria e di una sfida al sistema, incarnando l’idea – estremamente cinematografica – che la fragilità della malattia mentale possa essere catalizzatore per la trasformazione personale.

Un altro esempio è Harley Quinn, partner di Joker, il cui disturbo borderline viene dipinto come un mix di perversione e fascino irresistibile. Il suo comportamento impulsivo, autodistruttivo e la sua capacità di flirtare con il pericolo la trasformano in una delle anti-eroine più seducenti del cinema contemporaneo. La rappresentazione cinematografica, in questi casi, gioca pericolosamente con l’estetizzazione della malattia mentale, trasformandola in un elemento di attrazione e di potere.

Il cinema, in quanto espressione artistica, offre un’opportunità preziosa per esplorare e rappresentare la complessità della malattia mentale, contribuendo a dare visibilità a esperienze spesso trascurate. Tuttavia, questa rappresentazione può talvolta scivolare verso una semplificazione  delle sfide legate alla fragilità psicologica, alimentando l’idea che l’instabilità mentale possa essere un segno distintivo di genio o seduzione. In questo contesto, è essenziale che il pubblico si avvicini a tali narrazioni con uno spirito critico, riconoscendo le sfumature delle esperienze umane e il rischio di ridurre la sofferenza a mera fonte di intrattenimento, mantenendo una consapevolezza profonda della realtà della salute mentali e delle sue molteplici complessità.

 

 

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