Elogio della ‘mano’ e le opere di oggi. Memorie

Arte pura o arte applicata? Torna, con maggiore frequenza, la richiesta di che senso essa ha, per l’artista in primis, e per noi ‘pubblico’, che sostiamo innanzi a quello che, per Merleau-Ponty, era la necessità di celebrare l’enigma della visibilità. L’arte ha un senso quando riesce a riorganizzare dei materiali attorno a un’attesa – scriveva Tony Negri – attesa di qualcosa di aperto: allora, l’arte si manifesta come accadimento inaspettato, imprevisto e nuovo.

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È ancora attuale riflettere sulle relazioni tra la sfera dell’arte, quella del design e quello che, almeno fino agli ultimi decenni del secolo scorso, era l’ambito delle cosiddette Arti Applicate? Era la domanda che ponevo nel mio intervento al convegno “Né arte né design”, un focus sulle Arti applicate in Italia, tenutosi alla Triennale di Milano nel settembre del 2019. Una riflessione che, non poteva essere diversamente, è quella di uno storico e critico d’arte contemporanea e, quindi, orientata verso gli aspetti dell’arte dei nostri giorni, dei suoi processi all’interno della condizione di surmodernité, dello slittamento della composizione verso l’‘ornato’.

Se l’opera riesce a rivelare

il significato della storia

Prima, però, vorrei concedere un piccolo spazio alla memoria, ad un ricordo autobiografico, ad esperienze di manualità creativa che mi riportano indietro negli anni, ai primi dei Sessanta, all’azienda dei miei genitori, ove il sapere di mani artigiane rendeva un tessuto la materia di un artificioso giardino in fiori. Apparentemente, quanto sto per dire, sembra non avere alcuna relazione con l’argomento richiamato poc’anzi, anche se, ritengo, senza forzature, che l’esperienza vissuta, da spettatore, abbia avuto in seguito una larvale incidenza sul mio approccio storico-critico all’opera e, soprattutto, al processo esperenziale dell’artista: in pratica sul mio continuato tendere a leggere l’arte quale espressione della «libertà – scriveva Nicola Abbagnano analizzando, a metà degli anni Ottanta il pensiero di Adorno sull’arte – che vive nel mondo e rivela il significato della storia esprimendo il passato, quando lo critica e lo rinnova, e anticipando l’avvenire di cui essa fa intravedere le possibilità nascoste».

L’azienda Bignardi tra tessuti

e immaginazione creativa

L’azienda operava nel campo della moda, in particolare nel settore dell’abbigliamento e degli accessori per la sposa, caratterizzata da una produzione propria di un prêt-à-porter sartoriale, con una clientela sparsa in tutta Italia. La cifra artigianale l’aveva ereditata dalla tradizione dei miei nonni paterni, in particolare da mia nonna, giovane modista napoletana, presente a Parigi all’esposizione del 1900 e che tra le sue clienti vantava le ‘donne’ di casa Croce. L’azienda dei miei, negli anni sessanta, raggiungeva, per il numero di dipendenti, il carattere di quella che oggi definiamo piccola industria e che aveva, nella sua organizzazione, il punto di eccellenza nel ‘reparto’ delle fioriste: giovani apprendiste dedite alla produzione di fiori in seta o in altro tessuto. La mano, condividendo quanto osservava Focillon nel suo celebre Vie des Formes suivi de Éloge de la main (Parigi, 1943) dal quale prende il titolo questo contributo, restituisce al tatto «la natura di forze misteriose». In fondo, non fa altro che seguire, nella materia, il farsi dell’immaginazione, la sua necessità di prender corpo e di affermarsi tra le cose che occupano lo spazio, che è proprio della vita. La mia attenzione di adolescente era attratta dal processo che rendeva possibile, con semplici gesti guidati dal sapere di mani artigiane, il formarsi di meravigliosi fiori di taffetà, di organza in pura seta o di altro tessuto come erano, per esempio, la battista e la pelle ovo, che offrivano una trama dai filati sottili, necessaria per dare l’effetto dei petali delle camelie.

Il tessuto veniva teso su grandi telai; poi le ‘fioriste’ stendevano l’appretto, solitamente una gelatina naturale che conferiva al tessuto una certa solidità, ma anche la tinta; bellissima la colorazione per i petali della rosa Tea, ricavata immergendo il tessuto in un bagno di tè diluito. Piegato in strati, uno sull’altro, il tessuto passava alla fase nella quale una fustella in ferro, dalla lama ben affilata e sagomata secondo il profilo del petalo, tagliava, sotto i colpi di una mazzuola, decine, centinaia, migliaia di petali. Di seguito, l’‘incavatura’, con un pallino di ferro leggermente riscaldato – la sua forma con l’impugnatura in legno ricorda tanto un utensile proprio del laboratorio dell’incisore – dava la giusta concavità, graduandola di volta in volta, secondo il dischiudersi del fiore. A questo punto, l’alchimia trasformava, istante dopo istante, il corpo che prendeva forma nelle mani. Scriveva bene Focillon, quando sottolinea che la superficie, «il volume, densità, peso non sono fenomeni ottici», perché l’uomo, nel mio caso le giovani ‘fioriste’, li riconoscevano «innanzitutto tra le dita, sul palmo della mano». Un ciuffetto di semini, colorati solitamente di giallo con l’anilina, veniva stretto all’estremità di un filo di ferro zincato; poi, uno ad uno, venivano stretti i petali: dapprima, quelli maggiormente incavati, tali da dare il senso del bocciolo e, dopo, quelli con minor incavatura.

Le sfumature dal tiepido rosa si distendevano a raggiera fino al bianco intenso. In seguito, un filo di seta stringeva il tutto con un nodino; infine, il ‘gambo’ rigirava tra le dita, che lo rifinivano di un sottile strato di carta crespa, fissato con un tocco di colla. Allineati sul tavolo, i fiori offrivano alla fantasia il variopinto prato della flora botticelliana, i gialli brillanti dei girasoli di Arles, i fiori di Chardin o l’espressiva inquietudine delle rose di Nolde.
Odorosi di appretto, di colla, di tessuto modellato dal calore degli utensili, i fiori testimoniavano «la creazione – è ancora il pensiero di Focillon a guidarci – di un universo concreto, distinto dalla natura», che è «il dono sommo della specie umana». Eccoli nell’universo concreto della vita, dopo che le mani hanno piegato l’opacità della materia, pronti ad accompagnare l’immaginario nell’incantesimo della creazione.

La distinzione di Dorfles

e le strade della creatività

Torniamo all’argomento di questo intervento, ponendo in relazione l’arte dei nostri giorni, il design, e quel che sopravvive dell’artigianato colto, vanto della grande tradizione italiana. In primo luogo, v’è la necessità di porre una domanda su cosa è l’arte in questo nuovo millennio, giunto oggi alla fine del secondo decennio. Penso all’arte, quella che Dorfles, sul finire degli anni cinquanta, definiva “pura”, per distinguerla da quella “applicata” e mi viene spontaneo chiedermi: «Che cos’è l’arte oggi?». È il punto di domanda che mi attende ogni qualvolta varco l’uscita delle attuali grandi kermesse d’arte contemporanea, in primis la Biennale veneziana. V’è da chiedersi ulteriormente: «Sussistono ancora misure che distinguono l’arte “pura” da quella “applicata”, alla luce del tendere generalizzato della prima verso il decoro e, se vogliamo essere più veritieri, l’ornato?». Un riscontro l’hanno offerto le opere ‘pittoriche’ presenti quest’anno alla Biennale di Venezia: un repertorio di rettangoli, quadrati di tela o di altro supporto, con immagini il cui ‘stile’ è ancora riassumibile nel ‘non stile’ dell’età postmoderna. Oltre l’imbarazzante superficie, a volte sovraccarica di colori densi, acidi, dati con larghe pennellate o ricorrendo al dripping, lo sguardo – sarà mia incapacità – non va. L’effetto decorativo, ornamentale, sovrasta la dimensione estetica dichiarandosi all’occhio, quello retinico, privo di un quid artistico: è la resa stereotipa propria di un processo globalizzante, che tende ad elevare a stile, le cifre distintive dell’ornato, cioè, osservava Eugenio Battisti, di «una certa facilità esecutiva, una visualizzazione chiara e convincente, un effetto brillante e privo di aggressività». Insomma, è quell’effetto di ‘superfice’, che mi ha accompagnato sala dopo sala.

Certamente, l’appuntamento con la Biennale è di quelli da non perdere, ma cercando, il più possibile, di tenersi lontani dai commenti che, dai giorni della vernice, inondano i social e le riviste.

La 58a Esposizione Internazionale d’Arte è stata fuor di dubbio un macrocosmo popolato da una indescrivibile molteplicità di realtà operative, non obbligatoriamente un luogo dove aggiornarsi, ma certamente un luogo da vivere in presa diretta, ponendosi, come penso che sia corretto fare, nella pratica della critica d’arte, nella disponibilità all’incontro con il progetto curatoriale e con le opere che esso propone. L’opera resta, però, il centro della mia attenzione in quanto documento diretto; in pratica, il principale e fondamentale approccio con la sua concretezza di costruzione linguistica.

Al nucleo centrale, rappresentato dalla mostra allestita tra gli Arsenali, le Gaggiadre, il Giardino delle Vergini e il Padiglione centrale ai Giardini, si è aggiunta la ragnatela di eventi, che si spande nella città lagunare, disegnando una costellazione di punti, luoghi e spazi espositivi, che hanno accolto sia altri padiglioni nazionali, sia i progetti speciali e i ventidue eventi collaterali che, in questa edizione, contribuiscono a rendere ancora più attrattiva la kermesse lagunare.

I nuovi corsi della pittura

e le cifre della Biennale

 

La prima delle domande che mi sono posto è stata: «Qual è o, meglio, che senso ha la pittura oggi?». Penso che innanzitutto c’è chiedersi se ha senso attribuire all’arte un vero scopo, così come ha fatto con scarsi risultati Ralph Rugoff, curatore della mostra centrale, May You Live In Interesting Times. È un titolo che, nel contesto della situazione dell’arte dei nostri giorni, suonerebbe meglio chiuso da un punto di domanda. Al di là di ogni affermazione o quesito, penso che sia arbitrario porre tale riflessione in un contesto, qual è la Biennale, che, edizione dopo edizione, sta acquistando una cifra, direbbe Bauman, ‘liquida’, di mondanità e selfie per social, ma anche di visitatori coinvolti, se non travolti, dal desiderio di sentirsi inarte. Insomma, una città-luogo, Venezia, con la vasta estensione di eventi collaterali, ove è difficile avere la lucidità per avanzare momenti di riflessione. D’altra parte, lo stesso Rugoff non chiarisce quando, nel testo introduttivo al catalogo, parla del vero scopo dell’arte che, a suo dire, «non è un messaggio che possiamo semplicemente decifrare e comprendere; le opere più interessanti, al contrario, ci propongono coinvolgenti punti di partenza, e non conclusioni». Aggiungendo, subito dopo, che esse ci «trasmettono piaceri inaspettati e una sensazione di sorpresa e incertezza; potremmo avere l’impressione di capirle e, allo stesso tempo, di non capirle». Concludendo che di fronte «a un’opera sufficientemente complessa, potremmo non essere mai in grado di stabilire il rapporto che ci lega ad essa».

Disorientamento e necessità

di rapporti alternativi con l’opera

La domanda viene spontanea: «Cosa vuol dire sufficientemente complessa?». Un’opera ha sempre una sua complessità; un riscontro, in tal senso, ci è offerto dai vari punti di vista che Heidegger propone per l’interpretazione di uno dei celebri dipinti di Van Gogh raffigurante un paio di scarpe.

Inoltre mi chiedo: «Perché lo spettatore potrebbe non essere in grado di stabilire un rapporto con l’opera?». Il gradiente del ‘rapporto’ ha una gamma infinita che va dalla sfera estetica al piacere o meno visivo, al simbolico, alle sollecitazioni iconografiche, ai contenuti, alle ideologie: l’approccio è guidato dalla disponibilità o meno della coscienza che fa leva sia sulla conoscenza, sia sul deterrente emotivo.

Non interessa, o almeno non mi pongo la domanda sullo scopo dell’arte: torna, con maggiore frequenza, la richiesta di che senso essa ha, per l’artista in primis, e per noi ‘pubblico’, che sostiamo innanzi a quello che, per Merleau-Ponty, era la necessità di celebrare l’enigma della visibilità. L’arte ha un senso, quando riesce a riorganizzare dei materiali attorno a un’attesa – scriveva Tony Negri – attesa di qualcosa di aperto: allora, l’arte si manifesta come accadimento inaspettato, imprevisto e nuovo.

Massimo Bignardi

Classe 1953, ha studiato, con Enrico Crispolti, Storia dell’arte contemporanea. Già professore di ‘Storia dell’Arte contemporanea’, presso Università di Siena ove, dal 2008 al 2016, ha diretto la Scuola di Specializzazione in Beni storico artistici. È stato commissario della XI e XIV ) Quadriennale d’Arte Nazionale. È, dal 2002, direttore del Museo-FRaC Baronissi. Di recente è stato nominato, per il trimestre 2023-2025, curatore del Premio Internazionale Bugatti-Segantini.

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