Da Forlì a Senigallia a guardar fotografie (e qualche dipinto)/1

La meraviglia del Palazzetto Baviera: con i suoi antichi stucchi vale da solo il viaggio verso la città marchigiana

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3 gennaio 2019. È notte a Forlì, freddissima, quando arriviamo. Domani sarà… ma ci si sveglia in ritardo… che già metà del giorno sta per passare… Allora si va a Senigallia, diretti al Palazzetto Baviera, bello con i suoi innumerevoli stucchi risalenti al 1590. Impreziosiscono cinque sale, sono opera dello scultore urbinate Federico Brandani che vi rappresentò scene dell’Iliade, della Genesi, della storia romana e delle dodici fatiche di Eracle. Valgono da soli una visita alla città marchigiana. Sono l’esempio intatto di una modo di vedere, di uno «statuto della visione» che collocava le immagini nella realtà, fuori dal corpo e dall’intelligenza dell’osservatore, esterne ai meccanismi fisiologici e culturali della visione che invece, a partire dal XIX secolo, secondo Jonathan Crary (Le tecniche dell’oservatore, Torino 2013), definiscono il paradigma del vedere nella modernità.

Infatti, nelle sale del Palazzetto Baviera di Senigallia, le 150 immagini della mostra Alexander Rodčenko. Revolution in photography a cura di Olga Sviblova, sembrano dimostrare come tale passaggio sia avvenuto anche grazie all’uso della camera: «Ci hanno educati, abituati a vedere con le regole della composizione, con i canoni del tempo della nonna. Dobbiamo rivoluzionare la gente. Che impari a vedere da diversi punti e con diversa luce!» scriveva Alexander Micahilovic Rodčenko nel “Taccuino”, una rubrica della rivista Novij Lef, il n. 6 del 1927. Le sue opere e il suo «paradigma rivoluzionario» sono a Senigallia. Sotto i nostri occhi e sotto gli stucchi cinquecenteschi del Brandani. Sono fotografie provenienti dal MAMM-Multimedia Art Museum di Mosca, realizzate tra gli Anni Venti e Trenta dello scorso secolo.

Rodčenko nacque a San Pietroburgo nel 1891. Figlio di un artigiano teatrale e di una lavandaia, seguì corsi di pittura, scultura, grafica dedicandosi poi alla fotografia, al cinema infine all’insegnamento e alla scenografia. Si definiva artista del Fronte proletario al seguito della Rivoluzione d’Ottobre ed era amico e compagno di lotta di Tatlin, Malevič e Majakovskij. Artista di volta in volta definito cubo futurista, suprematista, costruttivista. Insomma un esponente di primo piano dell’Avanguardia russa. Iniziò a fotografare per produrre fotomontaggi “d’arte” e non pensava se stesso, forse, come fotografo: «Io sono un pittore e la mia pittura – non lo immaginavo – ha lasciato una pesante impronta sulla mia fotografia». Così scrisse di sé. La sua fotografia fu rivoluzionaria perché dimostrò che si poteva cambiare lo sguardo sulla realtà che dopo di lui fu immortalata negli scatti fotografici in maniera diversa, non naturalistica, problematica. Nei ritratti degli amici, nei cortili delle case, negli scorci cittadini, nelle adunanze sportive così come nel gesto atletico tutto è composto fotograficamente in modo da risultare antinaturalistico, non convenzionale, strano, sghembo, sbagliato: angolo di ripresa inconsueto, posizione del soggetto inopportuna, prospettive strabiche con le conseguenti distorsioni, sono il suo modo di fotografare. Il potere sovietico lo emargina poi lo riabilita per emarginarlo ancora e poi riabilitarlo. L’artista non può essere ingabbiato ma il lavoro ne risente, Stalin incombe. Dal 1941 al 1956, anno della sua morte a Mosca, Alexander Micahilovic Rodčenko non fotograferà mai più.

L’arte di Alexander Rodchenko

L’essenza di questa storia è presente nelle sue foto esposte a Senigallia. Emblematicamente condensata in quell’immagine del 1930 intitolata Scalinata e posta ad emblema dell’esposizione marchigiana. È un’immagine sbilenca, asincrona, fuori tempo. Ricorda la «scalinata di Odessa», quella sequenza del film di Ėjzenštejn su La corazzata Potëmkin (1925). I gradini sono raffigurati diagonalmente rispetto al rettangolo di composizione fotografica, drammaticamente bianchi e neri per contrasto. Non c’è la folla che scende e cade sotto i colpi e la ferocia dei cosacchi della Zar. Nel mezzo c’è una madre, con in braccio un bambino, che la risale. L’ombra le cade alle spalle perché, forse, di fronte ha il sol dell’avvenire. Forse quel sole sta tramontando. Forse.

Ci sono in mostra, fra le altre, due immagini che mi feriscono (barthesianamente). Un tuffatore si rannicchia nel gesto atletico di chi cala dal trampolino roteando. Ma il movimento è bloccato nella sguardo/scatto di Rodčenko, immobile, e nulla suggerisce simbolicamente il roteare di un tuffo raggruppato. L’uomo è composto fotograficamente nell’angolo superiore destro del fotogramma. Tutto il resto è cielo grigio e nuvole chiare.

Il ritratto di Majakovskij è perturbante. Sembra di poter scorgere in quella testa rasata e nei suoi occhi un destino già narrato. Sembra essere consapevole di essere fuori tempo, fuori luogo. Anche lui asincrono.

La mostra è divisa in sezioni, l’Autoritratto caricaturale del 1922 è esposto tra i ritratti di amici e familiari, accanto alla Ragazza con una Leica (1934). Meravigliose – nel senso di fantastiche – sembrano quelle appartenenti alla serie Fabbrica di lampadine elettriche di Mosca realizzata a cavallo degli anni Venti e Trenta. Poi il rinnovamento edilizio di Mosca, la costruzione del Parco della Cultura, l’asfaltatura delle strade di Leningrado, gli edifici simbolo della modernità e del regime sovietico. Ancora impressionano i fotoreportage all’interno dell’ufficio editoriale e dell’archivio del giornale “Gudok” (1928), quello sui lavori di costruzione del canale che collega il Mar Bianco con il Mar Baltico. Infine le acrobazie degli artisti del circo. Soggetti tutti già visti e mostrati con sguardo rivoluzionario perché perturbante. Visibili ancora fino al 20 gennaio prossimo.

Un’opera del Perugino

Usciamo, all’aperto è freddo ed è buio. C’è, vicino, il Palazzo del Duca. Fu eretto a metà XVI secolo per volere di Guidobaldo II Della Rovere, su progetto dell’architetto Gerolamo Genga. Ci invita ad entrare la mostra dei capolavori del Perugino, di Crivelli, del Giaquinto e di altri maestri attivi nelle Marche – tra il Quattrocento e il Settecento – che nel corso dei secoli hanno contribuito ad arricchire i centri adriatici con le loro opere. La mostra è curata da Stefano Papetti ed si intitola Dai monti azzurri all’Adriatico. Molte opere sono state salvate dal sisma che sconvolge il nostro Appennino centrale. «A far da controcanto alla Pala di Senigallia del Perugino, che raffigura la Madonna in trono con Bambino e i Santi Giovanni Battista, Ludovico di Tolosa, Francesco, Pietro, Paolo e Giacomo, il drammatico Cristo della Passione dello stesso Perugino che attesta la grande diffusione della sua cifra stilistica nel vasto territorio del centro Italia» – recita la brochure e non è lontana dal vero. La mostra rimarrà aperta fino al 3 marzo 2019.

Alla fine della visita un custode ci chiede se abbiamo voglia di un caffè e suggerisce di prenderlo in corso 2 giugno, al Caffè Centrale che è anche Libreria Mondadori. Ci preannuncia una sorpresa. Lasciamo alle spalle la Rocca roveresca, dal nome dei committenti, i Della Rovere. Tutta illuminata, ingloba la prima torre difensiva di epoca romana, la fortezza voluta dal cardinal Albornoz che bonificò la palude nel XIV secolo, l’ampliamento dei Malatesta della metà del XV secolo e infine l’intervento roveresco degli anni Ottanta del XV secolo. Da qui la denominazione.

Nelle opere fotografiche di Giacomelli uno specchio fedele dell’umanità in cammino

Giungiamo al bar/libreria. Entriamo nel caffè pieno di libri in vendita. In un angolo la sorpresa, anzi due. La prima consiste nella presenza di alcune stampe fotografiche, sospese alle pareti, dove sono i tavolini delle consumazioni. Sono foto originali di Mario Giacomelli.
«Giacomelli non è un fotografo professionista, non è neppure un dilettante; anzi, nella misura in cui la fotografia non è soltanto il riflesso di un’idea, ma un programma, la fotografia di Giacomelli diventa arte». Così parla di lui Luigi Carluccio (I grandi fotografi. Mario Giacomelli, Milano 1983) e le 15 foto esposte permanentemente al Caffè Centrale di Senigallia sono esempi emblematici e minimi della sua arte, di quelle sue serie fotografiche molto più corpose.

Ci sono i pretini della serie Io non ho mani che mi accarezzano il viso (1962-63): giocano e sono neri sul bianco, senza grigi. Il titolo della serie è un il titolo di una poesia di Davide Maria Turoldo. Uno di quei seminaristi ricordò che le foto in cui fanno il girotondo furono pensate dal maestro che chiedeva loro semplicemente di giocare! Vedo le anziane e i bambini di Scanno (1957-59), anche quello piccoletto e famoso detto “con l’aura”. Giacomelli si ferì un ginocchio per scattarle, dopo aver viaggiato con un’utilitaria per tutta la notte. C’è La buona terra (1964-65) con i contadini che si sposano e lavorano sempre. Quelle immagini, raccontò l’artista a Simona Guerra in una lunga intervista (Mario Giacomelli. La mia vita intera, Milano 2008), dovevano essere semplicemente interpretate dagli osservatori, non capite.

Sulle pareti del Caffè Centrale ci sono anche le Metamorfosi della terra (1955-80), quei campi arati con i loro solchi ad alto contrasto per i quali scrisse (nei suoi appunti degli anni ’90, visibili nell’Archivio sul web che porta il suo nome) «Questa terra violentata dal ferro dell’aratro, rovesciata dall’uomo che cerca in essa la sua vita e che, senza sapere, scolpisce le sue rughe, le sue speranze”. C’è, infine, Caroline Branson la serie fotografica ispirata alla poesia n. 199 dall’Antologia di Spoon River di Edgar Lee Master:

… Uno stelo sulla sfera terrestre,
fragile come luce di stelle;
in attesa d’essere gettato di nuovo
nel flusso della creazione.
Ma la prossima volta venire al mondo
sotto lo sguardo di Raffaello e san Francesco
nel caso passino di lì …

Il tempo di riprendere fiato e ordinare un ginseng che si appalesa la seconda sorpresa. Seduti a uno di quei piccoli tavoli noto un uomo e una donna che sorseggiano the bollente e ci osservano. Mi presento e provo a spiegare il motivo e l’interesse per quelle foto e per il loro autore, cittadino illustre dello loro città. Maria Pia Verdini, così si chiama la donna che si presenta come fotografa e studiosa di immagini. Sorpresa e divertita, mi informa che il suo accompagnatore è Sandro Genovali, l’autore del volume Mario Giacomelli. L’evocazione dell’ombra. (Milano, Charta, 2002), un saggio affettuoso e appassionato di colui che ha seguito il grande fotografo con profondo senso dell’amicizia e acuto interesse teorico. Nel volume, Genovali ha raccontato Giacomelli anche grazie a 32 straordinarie immagini che ne ripercorrono la storia. Ne ha evidenziato i grandi gangli tematici – madre, acqua, terra, casa – e le modalità della loro realizzazione per immagini fotografiche, restituendoci il punto di vista di un artista assoluto, capace di inventare uno scenario di ombre irrimediabilmente evocate solo dal forte contrasto dei bianconeri, quasi assoluti, delle sue stampe.

Un saluto ed un treno veloce per tornare a Forlì. L’indomani ci saranno altre foto da guardare nelle mostre dedicate a Ferdinando Scianna e Paolo Monti, nel Complesso dei Musei di San Domenico. Ci sarà ancora da pensare …

(to be continued…)

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