Brouwers, un cliente difficile ma per vocazione letteraria

Busken è l’atto di resistenza di un uomo al proprio tramonto e a quello di un’intera epoca culturale, un romanzo in cui risuona il Novecento di Joyce, Proust, Svevo, Canetti

Tempo di lettura 4 minuti

Chi intendo con noi, dei quali anch’io, il cliente Busken, faccio parte. Intendo tutti, l’intera congrega, la combriccola al completo, i relitti umani che popolano questa casa di riposo, il personale curante genderfluido e i superiori di ordine e grado: i gran mogol, pardon, i gran mogol della psichio e psichiaterapia e della medicinoiatria, quindi i terapizzanti, quelli del lune e mercole e quelli del marte e giove, e pure l’a me vagamente noto, vagamente familiare parroco della cappella ospedaliera, buio totale sul nome, mi porge una mano in segno di saluto o benedizione, ma per fortuna la mia vista nell’ultimo periodo è gravemente peggiorata, e perciò non la vedo, con l’altra mano porta alla bocca un bicchiere di plastica bianca zigrinata. Jeroen Brouwers, Il cliente Busken, Iperborea, pag. 234.

Jeroen Brouwers (1940-2022) è uno dei grandi maestri della letteratura olandese. E Il cliente Busken è considerato un vero e proprio testamento letterario. Grazie a Iperborea, innanzitutto. E grazie ai traduttori Claudia Di Palermo e Francesco Panzeri che con umiltà si sono avvicinati a questo testo complesso e vertiginoso rendendocelo un’esperienza degna della straordinaria maestria di un autore che vale di sicuro la pena di scoprire e di leggere. Una scrittura, quella di Jeroen Brouwers, che diremo matura ma senza nessuna allusione all’anziano personaggio confinato in una casa di riposo. Una scrittura funambolesca, azzardata, feroce, ma anche ironica e sensoriale. Un esercizio di stile, in pratica, e un eccezionale e permanente monologo di alta letteratura che, se non ci si lascia sorprendere dal tema della vecchiaia o della demenza, o da tutto ciò che lascia evocare l’incubo di una fine relegata come fantocci in una sedia a rotelle con tanto di pannoloni e fischietto per le chiamate d’emergenza, si potrebbe considerare un amabile e provocante trattato di contemporaneità, quella ormai avvezza al cinismo o alla brutalità di gesti, azioni, segni, sempre più conteggiati o marcati d’indifferenza; che lasciano cioè l’uomo solo con il proprio destino di disperazione e di dolore. Una società senza pietà. Senza una ragione comune. Senza un compito da svolgere. Una società atta a prescrivere pillole e a dedurre malattie. Una fine e un fine disumanizzante, in breve, resi con le armi di una scrittura potente e beffarda, a tratti violenta ma che fa accadere quel coinvolgimento da intendere sempre come riflessione e piacere, coscienza e intrattenimento, meditazione ed estro letterario. Ciò che si deve, in altre parole, richiedere sempre alla letteratura.

Misantropo, mitomane, dipendente da alcol e sigarette, Busken, si ritrova di colpo “cliente” di Villa Madeleine, in altre parole intrappolato in una casa di cura, dove ogni cosa è rinominata secondo le mode del politicamente corretto, brutto male per cancro, andarsene per morire, costretto a vivere con “vecchi rincitrulliti” e “carcerieri” che lo trattano come un bambino. Lui che a suo dire è un esimio latinista, neurochirurgo, ingegnere robotico, sommo poeta che redige i suoi trattati in un codice segreto su vecchi rotoli di carta da fax, quando i medici, invece, lo pensano come un semplice impiegato affetto da demenza. Sono legato alle certezze, pensa Busken, e ci tengo che tutto rimanga al suo posto e nulla cambi nelle mie abitudini. Senza certezze è come essere immersi in un libro e di colpo scoprire che sono state strappate via delle pagine o che parti di testo sono state coperte da cancellature nere. Ecco, di quali certezze parla il cliente Busken? Di quale realtà è in possesso se vede le cose – tutte – colorate di blu? È un problema agli occhi, il suo, o una beffarda evocazione di un mondo poetico che appartiene solo a se stesso? “… qui quasi nero, ma più avanti è blu scuro intenso, ancora più avanti blu libellula trasparente e giù in fondo dove il mondo finisce è bianco.”

Tuttavia, Busken annota tutto ciò che accade, riflette sulla vita, sulla degradazione o umiliazione del corpo, sulla senescenza, su “quest’anziano filosofo demente” che tenta con una mano tremante di far fuori un’ape, ma solo per scacciarla via, mentre si accorge che l’ha presa e che è ormai troppo tardi. Commenta i medici, gli infermieri, gli altri pazienti in maniera sprezzante, facendo diventare il tutto una parodia irriverente e irreversibile, amara e impetuosa, passionale e straniante. “Non so, dove sono. Non sono qui e non sono anziano”. Infine, il cliente Busken si moltiplica nei ricordi. Si dilegua nei suoi regni. Gesticola nei suoi inciampi protetto solo dal suo silenzio che lo rende simile a un viaggiatore sulle rive vorticanti di un fiume. O simile a un profeta che ha perso la voce e che aspetta soltanto di “essere schiacciato da un cavallo ed evaporare al sole o essere inghiottito da un uccello nell’azzurro del cielo. Mi dico a posteriori, mentre rifletto sul mio destino, che differenza fa. Datemi una di quelle pillole letali piene di X, Q e ipsilon”. Opera spassosa e struggente, si legge nell’aletta di presentazione, di una poesia sanguigna e amara definita “un monumento eretto alla lingua”, Il cliente Busken è l’atto di resistenza di un uomo al proprio tramonto e a quello di un’intera epoca culturale, un romanzo in cui risuona il Novecento di Joyce, Proust, Svevo, Canetti. Mi permetto, a chiusura, solo di aggiungere l’effetto sinestetico olfattivo che il libro genera. O, almeno, che ha generato in me. Al che si potrebbe definirlo un libro di odori acidi e nefasti. Oppure, un libro di profumi intensi di boccioli e corolle. O anche di nostalgie. Di tante nostalgie e di bianchi abbaglianti o mai esistiti. Per dire che l’arte è sempre nostalgia. Una voce che parla, la letteratura in questo caso, dai recessi più profondi di una lingua che sente il passato del tempo come presenza o, daccapo, come quella spallata inattuale che permette di schernire e ancora di gioire. Di provare empatia e lacerazione. Un libro veramente bello. Un libro alla rovescia, dove è impossibile fuggire, e, ancora, più inverosimile salvarsi.

Jeroen Brouwers, Il cliente Busken, Iperborea, pag. 234

Jeroen Brouwers (1940-2022) è uno dei grandi maestri della letteratura olandese. Autore di numerosi romanzi, racconti, saggi, ha ottenuto i più importanti riconoscimenti letterari del suo paese, tra cui il Premio AKQ, il Premio Multatuli e il Premio della letteratura nederlandese per la sua intera opera. Con Il cliente Busken, considerato il suo testamento letterario, ha ricevuto nel 2021 l’ambito Premio Libris.

 

Previous Story

Silvano Martini. L’ebbrezza della parola e del desiderio

Next Story

Balducci, quando di naturale sembra esserci proprio nulla