La ricerca oltre l’archivio

Le scorribande presso siti archeologici sono parte fondante della visione esplorativa che si accompagna in maniera inscindibile alla vita di archivio

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Studiare il passato nel Pozzo de’ Goti è una sfida al tempo. Le ore in archivio passano veloci e occorre porsi il problema dell’ambito della ricerca sia con semplicità che con profondità. Nel momento della sconfitta del re Teia, i pochi Ostrogoti sopravvissuti usarono un corridoio sotterraneo per raggiungere Lettere. Un tunnel di millequattrocento anni prima che partiva dal Pozzo de’ Goti e quel tunnel lo cerco da anni nelle carte degli archivi, nelle biblioteche, nei musei.

Esiste, però, un ambito differente che nasce dalla visione esplorativa: quando esco per scorribande nel sito archeologico per una prospettiva reale. Dai castelli di carta mi allontano munita di alcune attrezzature fondamentali: un punto di vista che permetta di non emozionarmi troppo di fronte al sito che rappresenta la fine della guerra greco – gotica del 553 dopo Cristo; una forza spirituale che ispiri i miei movimenti per delimitare la visione e darmi i metodi della trattazione della fine del mio re Teia; una dimestichezza con l’abbigliamento composto da un caschetto celeste, regalato da Gino, un amico borbonico, una pala grigia rubata a mio padre e i tacchi alti, che permettono una visione del mondo che mi piace e che spingo in avanti, dritti nell’essenziale del sito.

L’esplorazione ha una propria profondità, quasi come una forma espressa d’impeto dell’animo umano. Una corrente di libertà selvaggia è il dono della visione con il primo colpo d’occhio. Sopra il Pozzo de’ Goti si trova una grangia abbandonata del XIV secolo, una dipendenza dalla Certosa di San Giacomo a Capri. Ma sotto l’edificio della grangia, c’è sicuramente il tunnel degli Ostrogoti. Ne sono certa. Un tunnel dimenticato e allo stesso tempo, sospeso come una sfida aperta.

La prima volta che visitai il sito, portai due cartelle piene di mappe e faldoni per trovare il Pozzo de’ Goti nella forma originaria. Non lo trovai, ma presi una caduta tra la bellezza della pietra antica, medioevale, divina. Tornai in archivio con le ginocchia sbucciate e l’impressione che la grangia si burlasse di me. Cambiai sguardo. Il filo conduttore divenne la grangia attraverso il territorio posto tra Angri e Sant’Antonio Abate. Una lingua di terreno che divenne personale, credevo che fosse soltanto la mia storia e qui mi sbagliavo.

Non è una ricerca ai margini della storia, piuttosto è un progetto che deve essere portato avanti da ogni cittadino che viva questi luoghi. Una forma di amore necessaria perché c’è una familiarità in Teia che appartiene a ogni Angrese e a ogni Abatese.

Siamo anche noi Teia in un confluire di tradizioni diverse e non sarebbe il caso di dircelo?

La certosa abbandonata a volte mi ha rifiutato. Forse mi ha visto titubante, forse non le piaceva il vestito che indossavo. Ha punito la mia impazienza con tagli e graffi sulle mani e sulle gambe. Ma io non potevo mollare. Ho messo dell’acqua ossigenata sulle dita e le ho dedicato un bacio mentre andavo a Napoli per un nuovo tuffo negli archivi.

L’oggetto del desiderio era sempre sotto, quel tunnel che cercavo disperatamente. Eppure, la certosa mi distraeva nei momenti più disparati: a tavola con la mia famiglia, guardando un film in televisione, ascoltando mio figlio Giovanni suonare il pianoforte. Mi ha inseguito durante le notti al computer con promettermi scenari d’amore, momenti di intensa sensualità, anche quando mi rifiutava. Ho visto il 1362, ho incontrato Giovanna I. La regina mi aspettava. Io non accettavo più il luogo abbandonato. C’era molto di più. Sentivo i cavalli del gran camerario Giacomo Arcucci, potevo vedere l’inconfondibile strada tra Nuceria e Stabia.

E finalmente un pomeriggio d’estate trovai la strada sotterranea. Sopra c’era lei, la certosa abbandonata, che nella sua bellezza eterna mi accarezzò la guancia con un colpo di vento. Furono tutti in attesa, Giovanna I, Giacomo Arcucci, Niccolò Acciaiuoli… ma io non potei entrare.

Perché la ricerca rimane la parte migliore di me. Quando scrivo un libro non mi concedo tregua, vale la pena vivere con il desiderio che non smette, mi fa innamorare di luoghi chiusi come gli archivi, offre il ritmo dell’amore nei castelli di carta.

Chiusi il tunnel, sporcando la pala di terra e facendo cadere il caschetto blu. I tacchi ormai erano due zeppe piene di fango e mi sembrò impossibile arrivare alla macchina senza camminare di lato come un granchio. Dopo essere arrivata all’auto con fatica, ebbi l’impressione che la certosa stesse ridendo di me. Guardai in alto e le dissi con voce chiara: «Non abbiamo ancora finito, noi due. Vado in archivio e torno domani».

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