La poetica di Eleonora Rimolo è caratterizzata dal “lessico dello strappo” e dall’ “alterazione”. Nella processione dei versi di Prossimo e remoto, si dona il bene della parola a ciò che addolora. Come se una brezza, emersa dal silenzio di un quotidiano straordinario, portasse con sé le voci dell’indicibile e del non-detto. La narrazione da un microcosmo a un macrocosmo ponendo un’isola da spartiacque. Da questo “peregrinare” germoglia la necessità di essere umani, creando relazioni con fatiche e responsabilità. Ecco, la necessità del prossimo, l’unico in grado di accoglierci per quel che siamo; l’unico con cui poter comunicare speranzosi di essere almeno capiti. Nell’odissea del vivere ognuno desidera un attimo di pace, una briciola di affetto, sentirsi amato in casa propria. Temi tanto cari all’autrice si pongono da bussola emotiva per quella “diritta via” ad una nuova condizione: ad un mondo a colori che continua, ancora, ad aspettarci; un mondo che dista da qui all’orizzonte. Nonostante un frastagliato mosaico di bonacce e tempeste e un sottofondo che ci ricorda di essere nulla, la Rimolo, col suo poetare, elargisce calore persino al buio che ansima un battito di luce. Lo stile della Rimolo è altamente musicale, pieno di armonie che lasciano vibrare le corde emotive di ogni lettore. Il verso è né troppo né poco, segnando un procedere preciso, ritmato dalle cadenze del vissuto, non certo appesantito dalle “dure” regole della metrica poetica. In poche parole, è poesia che proviene dal cuore. Un cuore lacerato dai dolori d’assenza, di solitudine, d’amore; un cuore che ancora pulsa, speranzoso nel sorgere d’un nuovo sole. All’autrice sembrano essere care delle parole che ricorrono frequentemente nei suoi versi. Nella poetica della Rimolo non si ha una trasformazione lieve e delicata ma un dramma che rispecchia l’esperienza. Si potrebbe anche parlare di “metamorfosi” ma non certo alla maniera amorosa di Ovidio: quasi sicuramente la concezione si avvicina particolarmente all’esperienza di Franz Kafka, con una trasformazione cruenta e dolorosa.
Per scoprire ulteriormente la bellezza artistica di Eleonora Rimolo, affacciamoci alla finestra del suo Prossimo e remoto, percorrendo alcuni significativi componimenti:
Il mare qui è un composto semplice, arancio
liquefatto nell’atmosfera, gas che annega
e brucia tutto: questo è l’odore di un’altra
vita, cresciuta al margine di una memoria non mia,
aliena fantasia di un attimo che sposta l’asse
mutando sogni e pianeti, senza distanza.
A volte lo sento in uno svoltare di strada,
appartiene a un passante, al suo stare
in un giorno reale: forse sono tornati
davvero gli dèi e tu non senti più il vuoto
nella pancia ma profumi di miti, stagioni
immortali, eroi che travasano la superficie
nel nero abissale e saltano, di nuovo, per amore.
Il mare, la vastità di un concetto che corre all’orizzonte, si pone come semplice e profonda frontiera tra la fantasia e la realtà. Il mare, non solo quella enorme distesa d’acqua salata, abbondante di pesci e remoti segreti, ma la condizione di dispersione, di impotenza, di naufragio. È proprio la condizione di “naufrago” a suggerire alla Rimolo di riempire i suoi polmoni creativi per immergersi tra le turbinose correnti di quanto si chiama “reale”. La memoria, da sempre compagna fidata e premurosa dei poeti, guida allo slancio creativo della condivisione di un’esperienza. Seppure nutrendo un briciolo di ottimismo, frutto di una innocente fantasia, prontamente la realtà ci prende alle spalle e «[…] sposta l’asse/ mutando sogni e pianeti, senza distanza». Ma la fantasia resiste, esiste nonostante il buio perché, come fuochi fatui – dispensatori di speranza – c’è chi ricorda e
rincuora proprio quando ci si ferma. L’autrice sa come ci si sente quando ci si ferma nel silenzio del giorno, a raccogliere ciottoli e brandelli, mentre si è immersi «in un giorno reale». Ed è dando ordine alle rovine che ci si illude ancora che «[…] forse sono tornati / davvero gli dèi e tu non senti più il vuoto/ nella pancia ma profumi di miti, stagioni/ immortali, eroi che travasano la superficie/ nel nero abissale e saltano, di nuovo, per amore».
Ancora ti guardo ed è l’abisso: i denti si staccano
Nel sogno come dadi, il tempo dura il colpo
Dell’onda sulla schiena e i rivoli si asciugano,
un estuario che non conduce ma secca.
Ancora in dormiveglia il profilo dell’isola bella,
una striscia compatta di crosta ombrosa
che al tramonto si spegne nel calore
e non brilla più: così si assottigliano tutte
le dita posate sul braccio destro, adesso
soltanto umide gocce di vapore, dissolte
in questo agosto torrido di rame.
L’autrice, sentendosi spettatrice della vita, continua ad ammirare l’abisso. Sembra essere proprio l’abisso ad essere fornace di infiniti e indefiniti miraggi. Il tempo non è più misurato con scienza, non è più fatto di minuti e ore, ma «[…] dura il colpo/ dell’onda sulla schiena». Non si parla più del tempo quotidiano ma di ciò che è “quasi” eterno. Ma non ci si può contentare perché, anche in questa condizione, il tempo continua a rosicchiare attimi, accorciando la corda tesa della vita, portando a «un estuario che non conduce ma secca». Non si demorde. Ci si concede, ancora, l’illusione segnata da un senso di “dormiveglia”: soltanto così si possono aprire le porte che conducono al «[…] profilo dell’isola bella» che ognuno, ansimando, desidera. L’isola, la metà, il proprio posto nel mondo, che purtroppo «[…] al tramonto si spegne nel calore/ e non brilla più», sbiadendo scandisce i duri colpi della nostra esistenza: un ‘esistenza che, solo al suo tramontare, si apprezza. Riflettendo a cuore aperto, con le proprie ferite ricucite ma non dimenticate, ci si rende conte che «[…] si assottigliano tutte/ le dita posate sul braccio destro». Quelle dita – forse di una madre, un padre, una persona cara – sicuramente del prossimo, si dissolvono e non donano più il calore che alimenta il nostro ben sperare. Il carico del dolore, un dì condiviso con quelle care mani, viene reso nuovamente intero.
Vorrei pensarla anch’io questa giornata amico mio
Come freccia senza bersaglio lanciata nel pomeriggio
Che non conclude mai la sua discesa ma vive alta
Nel sogno della durata: è difficile dire quando
Questa luce andrà via finché il riflesso negli occhi
Inganna e sembra eterno un febbraio, più lungo
Delle notti sciupate aspettando la disattenzione
Che addormenta i pensieri in un gomitolo. Eppure
Nessuna cosa è contro natura: i fari alti fugano l’ombra,
l’onda si allunga e inverte il corso, il vulcano avvinghia
alle spalle la collina ma è solo un gioco dello sguardo,
un pugno di chilometri che non avvicina la pianura
ma spacca campi e cuori con pozzi e fangaie
aprendo voragini e crateri di arida rena ventosa.
Il prossimo, nella medesima condizione, viene definito “amico”. E con lui ci si intrattiene per un rincuorarsi vicendevole, immaginando un gratuito scambio. La giornata più bella, quella che non dovrebbe mai giungere al termine ma rendersi «come freccia senza bersaglio lanciata nel pomeriggio/ che non conclude mai la sua discesa ma vive alta/ nel sogno della durata», cede alla realtà. Lo spirito, però, non demorde, facendosi servo di un nuovo sperare. Soltanto sognando ad occhi aperti, immaginando di specchiarsi negli occhi di Maya, «[…] sembra eterno un febbraio, più lungo/ delle notti sciupate aspettando la disattenzione/ che addormenta i pensieri in un gomitolo».
Ma la culla della propria fantasia può trovarsi soltanto nei nostri occhi: in quegli occhi che si riflettono in quelli del prossimo. Ecco che incontrando il proprio prossimo si ritrova se stessi. È, però, nel momento più dolce e prezioso, che il tutto comincia a sfarinarsi: ogni fantasia si riveste di reale, «nessuna cosa è contro natura». Eccola, la realtà, che ci lascia senza fiato, che ci costringe alla resa. Urlandoci che questo nostro bel vivere da sogno sia «[…] solo il gioco dello sguardo», tarpa le ali impedendoci il volo. Una condizione, questa, che ci allontana dal non-io, ricreando distanza, spazzandoci nuovamente via come foglie dipartite dallo stesso ramo cui bramiamo il felice ritornare. Amara realtà, «un pugno di chilometri che non avvicina la pianura/ ma spacca campi e cuori con pozzi e fangaie/ aprendo voragini e crateri di arida rena ventosa», Ecco la condizione del dolore che dimora nel fondo della Rimolo: una condizione non egoistica ma che, ricorrendo proprio alla poesia, vuole essere fraternamente condivisa. Sfuma la condizione della “bella età dell’oro” coi suoi venti di tempesta e le basi per un nuovo pessimismo: un pessimismo chiamato “realismo”.