Pasolini nelle risonanze profonde del Mezzogiorno

"La lunga strada di sabbia" (1959), un reportage dall'intensa tensione conoscitiva e civile

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Di tanti poeti e scrittori nati nel Sud dell’Italia, che ne hanno cantato e descritto bellezze naturali e valori storici, nessuno è mai riuscito a coglierne in profondità con acume e originalità l’essenza profonda nelle sue luci e ombre come Pier Paolo Pasolini.

Pasolini, insieme con il fotografo Paolo di Paolo, compie un viaggio da Ventimiglia a Trieste con una Fiat 1100; in particolare, durante tutto il mese di luglio, attraversa l’Italia meridionale. I servizi giornalistici furono pubblicati in tre puntate sulla rivista «Successo»: il reportage del viaggio nel Sud uscì il 14 agosto 1959. I tre articoli sono ora nel meridiano pasoliniano dei Romanzi e Racconti (1998), così come li aveva pubblicati la rivista, con alcuni tagli redazionali; ma nel 2005 il fotografo Philippe Séclier, avendo ricevuto da Graziella Carcossi i dattiloscritti originali con i testi integrali (e con appunti manoscritti tracciati velocemente su carta intestata dell’Albergo Savoia di Casamicciola-Terme a Ischia), li pubblica, prima in francese e poi, nel 2014, in edizione italiana con un corredo di sue fotografie, inserendo a colonna più stretta sulla pagina le parti inedite.

In una lettera aperta sulla Calabria, indirizzata al direttore del quotidiano romano «Paese Sera», uscita a fine ottobre dello stesso anno, Pasolini minimizza sulla tecnica usata nel reportage, definendolo un “piccolissimo” Reisebilder stenografato, steso in una per lui insolita maniera giornalistica, dove si era abbandonato anche a qualche scherzo linguistico, andando «non oltre la prima cute». Vedremo però che le cose sono molto più complesse e non stanno propriamente come Pasolini vorrebbe rappresentarle soprattutto ai lettori calabresi, che sono i veri destinatari del suo intervento giornalistico; anzitutto, non sono affatto epidermiche o superficiali.

Lo “sguardo” con cui Pasolini “vede”, legge e interpreta la realtà meridionale non è “neutro”, “oggettivo”, ma tende a trascinarla in un processo metamorfico, sottoponendola a una forzatura espressiva, con punte estreme e antitetiche di idealizzazione e animalizzazione, a partire dai dati antropologici. Si va dalla coppia di giovani turisti tedeschi, incontrati all’inizio del viaggio e, ricordando che proprio gli studiosi germanici sono stati tra i primi raccoglitori di canti popolari, idealizzati subito come “romantici”, in quanto mossi nel loro andare in Sicilia da un «ideale estetico», alle donne tarantine, «piccoline piccoline, nere, come vermetti», che prendono il bagno sotto gli sguardi cupidi dei maschi pugliesi, svelti e malandrini con «l’elica del sesso». La prevalenza spetta all’animalizzazione espressionistica, a cui sottende l’impegno civile di Pasolini, che in chiave ideologica e di critica sociale e politica intende stigmatizzare la miseria delle plebi meridionali, dovuta all’incuria e all’incapacità dei ceti dirigenti. Così, a Napoli, da dove inizia, dopo aver lasciato Ostia e il litorale laziale, il periplo meridionale, l’attenzione e lo sguardo del viaggiatore si focalizzano quasi esclusivamente su una specie di corte dei miracoli, come in un quadro di Pieter Bruegel: alcuni scugnizzetti di appena sette o otto anni, «piccoli come insetti…poveri pidocchi», sono agli ordini di un mostruoso nano («senza testa senza gambe senza braccia, senza corpo»), un vero “mariuole-‘e-mezzanotte”, pronti a intercettare il forestiero per estorcergli una moneta, non diversamente dai “guaglioni”, dai guappi e dai ragazzi di vita, mentre gli sfruttatori delle prostitute si aggirano nella notte, fischiettando e cantando canzoni in dialetto napoletano; insomma, sembra uno dei celebri Tableaux Parisiens di Baudelaire, una sorta di notturno parigino, come in Le crépuscule du soir delle Fleurs du Mal.

Non diversamente a Ischia: si salvano, dal punto di vista fisiognomico, un certo Michele, gestore di una pensione, «grasso, unto, nero, asmatico», e un «giovincello basso e squallido», ma un biondo selvatico gli appare come una “lumaca”, gli operai a lavoro sotto un sole implacabile come delle nere “testuggini”, il cameriere dell’Hotel di Lacco Ameno, dove Pier Paolo si reca per incontrare Luchino Visconti, gli si presenta come un “mastino”, e finanche il mare “sbadiglia” come «un enorme cane addormentato». Né viene risparmiata la metamorfosi vegetale, di illustre tradizione letteraria da Ovidio al Dante della selva dei suicidi, per cui un contadino calabrese incontrato nei pressi di Soverato è «vecchio come un vecchio olivo», mentre i volti che si vedono in giro sono simili a quelli di zingari e di “arabetti”. Lo sfondo antropologico muta nella Sicilia dei carusi: a Siracusa, il ragazzo, che strappa dal fiume Anapo delle canne di papiri per lui e Adriana Asti, in sua occasionale compagnia durante una pausa estetizzante, non può non avere per la predisposizione visionaria di Pier Paolo una faccia “antica”, «fenicia, alessandrina, o da scriba romano-meridionale». Il finale, questa volta idealizzante, utopicamente roussoiano, è raggiunto nella punta estrema della Sicilia, a Capo Passero, soprattutto a Porto Palo, dove la gente che di sera è fuori a prendere il fresco, per ristorarsi dal caldo vento africano del giorno, «è la più bella gente d’Italia, razza purissima, elegante, forte e dolce».

L’autore entra nel paesaggio meridiano

muovendosi in un’ottica dantesca

Lo sguardo non muta nella percezione delle cose, degli sfondi del paesaggio meridionale: Pasolini non vi raggiunge quasi mai il descrittivismo puro, alternando invece deformazione visionaria e trasfigurazione lirica; e, se, prima, con l’idealizzazione antropologica della razza pura e forte dell’estrema e povera punta del Sud d’Italia, era ricorso a Rousseau, adesso, con l’amplificazione topografica dei luoghi e degli ambienti visitati attinge, ancora in parte, al secolo XVIII, al suo Natural Sublime, da Burke a Kant, ma soprattutto si muove in un’ottica dantesca, attraverso il filtro dell’Inferno, a cui, mentore Contini, aveva nelle sue opere tratto più volte ispirazione.

A parte lo stupendo tocco lirico della Napoli vista come una semicircolare scia luminosa («tutta Napoli intorno al golfo è solo una pioggia di lumi in infinite ghirlande»), il Vesuvio, sulla via del ritorno dalle isole, all’altezza di Castellammare, gli appare «orrendo, informe spettro controluce»: la memoria poetica pasoliniana, involontaria o volontaria che sia, evoca lo «sterminator Vesevo» della Ginestra leopardiana, la cui eruzione di lava incandescente e distruttiva su Ercolano e Pompei, come tutte le esplosioni vulcaniche, rientra nelle figure kantiane del dynamisch Erhabene, mentre “orrendo” è termine tipicamente burkiano ( è il delightful horror). A Ischia il filtro dantesco diventa preminente: Pasolini si sofferma, visitando Sant’Angelo, sugli “strapiombi” e gli “scoscendimenti” dell’isola, definendoli “infernali”, non dissimili da quelli incontrati da Dante e Virgilio nella prima Cantica della Divina Commedia e stupendamente raffigurati da un altro artista visionario e preromantico, William Blake; ma anche la luce è violenta e «pesa sul mare come un lastrone» infuocato, nonostante Visconti, che vi si reca per le vacanze da circa quattordici anni, consideri quel posto «dolcissimo».

Quando, a Capri, scende nella Grotta Azzurra, dove ha l’impressione di «galleggiare su una lastra di luce», provando “delusione” e “scoperta” insieme («niente è mai bello come lo si aspetta, e tutto è più bello di quello che si aspetta»), appena subito dopo l’ingresso, esclama senza mezzi termini, non usando analogie o similitudini: in fondo «c’è Minosse», come se vi avesse visto e incontrato il mitico giudice e custode dell’Inferno. La trasfigurazione lirica domina, invece, lungo tutto l’attraversamento della costiera sorrentino-amalfitana, la “divina”, di cui Pier Paolo conferma, stupito e ammirato, il comune giudizio di essere «la più bella costa del mondo»; anzi, per la prima volta e più volte, usa la parola “bellezza”:«Lo è. Fulminata dal sole, è rimasta identica nei secoli, emanando fisicamente bellezza, come se la bellezza fosse una bava, un alone, un raggio. Cosa unica al mondo, qui la bellezza produce direttamente ricchezza. La gente vive in una specie di agio tranquillo, lasciando che la bellezza lavori per lei».

Siamo all’altro polo dialettico della celebre Enquiry di Burke: il Bello dopo il Sublime, ma qui entra una nuova presenza, che sembrava dimenticata, la Storia: su Amalfi, la potente Repubblica marinara, «a semicerchio sul porto, bianca, svuotata da secoli di silenzio, resa umile paese, da grande città che fu, e, tuttavia, felice», e su Ravello aleggia il suggestivo fascino, che Pier Paolo percepisce in tutta la sua connotazione simbolica, della «grande Italia cristiana e comunale», il cui “spirito” nessun Borbone, nessuna dominazione straniera riuscì e riuscirà mai a cancellare. Con queste osservazioni, riprende tutta la sua eccezionale statura di poeta civile, capace di spaziare con fulminea densità di pensiero su tutta la storia italiana, recuperandone la profonda identità e i momenti più gloriosi, con un’ispirazione degna dell’altissima poesia foscoliana.

Bello e Sublime, Natura e Cultura

Mito e Storia protesi verso l’Estasi

Né dimentica il mito: la “divina” costiera sembra identificarsi con il fascino della “divina” Greta Garbo, sulle cui tracce muove Pier Paolo recandosi a Villa Cimbrone, dove gli sembra di aver trascorso le ore tra più “belle” della sua vita. Vedendo lo “sperone”, che regge Ravello, “sospeso” nel vuoto, guardando dall’alto le sue colline, «che strapiombano sul mare», non può non «gridare dalla meraviglia»: ritorna la suggestione del meraviglioso, del Sublime. Sull’aerea «terrazza, sospesa nel cielo», sulle acque scintillanti del golfo di Salerno, sui prati dei giardini con i loro profumi così penetranti da “ubriacare” celebra il trionfo della Bellezza. Nello “stupendo” chiostro, nella cripta, con i bassorilievi dei nove Guerrieri Normanni, nell’abside della chiesa, nella “selva” di colonne, davanti alle quali «è aperto, c’è il precipizio, il vuoto, il mare», esalta la creatività dell’Arte. Dinanzi all’armonia finalmente raggiunta da poli, diversi e opposti, anche se tutti permangono con la loro inconfondibile identità, senza annullarsi o superarsi a vicenda, Bello e Sublime, Natura e Cultura, Mito e Storia, pronunzia insistentemente una sola parola in grado di esprimere il suo stato d’animo: «Estasi».

Quando attraversa la costa lucana con al centro Maratea sembra a Pier Paolo che lo “schema” paesaggistico sorrentino-amalfitano si ripeta, ma «riempito da un concreto inferno». Ritorna, dunque, anche lo schema dantesco, il suo filtro percettivo, tanto da definire “tremenda” la costa con il suo «enorme scoscendimento, tagliato da biechi torrenti»; ed è ripreso anche il Natural Sublime: non presentando «niente di ciò che si considera convenzionalmente bello», questo “concreto inferno” è, infatti, da lui sentito come “ossessivo”, ma il suo “risultato” è definito «stupendo». In terra lucana, ma a Matera, tra i suoi “sassi”, ricostruirà, anni dopo, la Gerusalemme del Vangelo secondo Matteo, evocando le «lunghe sere / pugliesi, o calabresi, o lucane, / o siciliane, tra le case dei poveri» nell’Alba meridionale di Poesia in forma di rosa.

Percorre poi la “lunga strada di sabbia” calabro-tirrenica, sentendo sul volto il vento caldo dell’Africa nel suo passaggio in Sicilia, dove si dirige oltre il catanese, ignorando la verghiana Acitrezza, come, attraversando il Cilento, aveva evitato Paestum, e punta decisamente su Siracusa, visita templi e anfiteatri, ma, assieme ad Adriana Asti, confessandosi le loro «atroci debolezze estetizzanti», si ferma soprattutto ad ammirare e a farsi raccogliere canne di “papiri”, si reca, infine, su una spiaggia, e si distende sulla calda sabbia, a cui attribuisce un aggettivo-spia, rivelatore dell’ottica percettiva adottata durante il viaggio: la sabbia, infatti, non solo è rovente, ma è anche da lui definita dantesca. In linea con una lettura non oggettiva dei paesaggi, risalendo la sperduta costa salentina, su cui infuriano gli assolati “meriggi”, e la costa calabro-ionica, puntando verso Pescara e l’Adriatico, Taranto gli sembra «un gigantesco diamante in frantumi» e le colline intorno a Crotone gli appaiono «lunari».

Un’idea generale del Meridione

dalle risonanze profondissime

A parte alcune osservazioni metaletterarie – quando si rivolge direttamente al “caro” lettore per prospettargli un libro “da fare”, in cui non dovrebbe succedere niente, tranne «quelle cose che appartengono solo alla vita, e muoiono dopo cinque minuti» –, la prova decisiva che il reportage di Pasolini non è superficialmente descrittivo, ma ha anzi una sua inconfondibile singolarità con risonanze profonde, è data dalla sua idea generale di Meridione, dal suo modo particolare di sentirne l’atmosfera, di avvertirne il “respiro” millenario. Insieme con persone e cose viste, di cui si sono rilevate le caratteristiche non neutre e oggettive, i suoni delle parole ascoltate gli sembrano provenire da una «misteriosa lingua», i gradini più bassi della “furbizia” partenopea si presentano “sublimi” e intrisi di un’«affabulazione degna di Plauto», a lui che, alcuni anni dopo, ne avrebbe tradotto e riscritto in italo-romanesco il Miles gloriosus. Tutto è avvolto in un’enigmatica aura mitica e metastorica, tanto da riportare alla mente un’osservazione di Leopardi nello Zibaldone sull’antitesi tra “meridionalità” e “settentrionalità”, rientrante in una logica di antinomie tipica del suo pensiero: secondo il poeta, la «civiltà antica», da lui ammiratissima, «fu una civiltà meridionale» e, pertanto, l’«antichità meridionale, e la maggior naturalezza degli antichi, è una specie di meridionalità nel tempo». Sembra, quindi, che anche per Pasolini esista una leopardiana “meridionalità nel tempo”: ripete più volte, che la Notte nel Sud d’Italia è “alta”, tanto che «Ischia è come duemila anni fa», e «la notte nel Meridione è ancora quella di molti secoli fa»; sente che gli “odori” sono «sopravviventi di una civiltà scomparsa», ed esclama: «Eterna età del Meridione, l’età di Narciso». Questo spiega anche la familiarità con certi luoghi, come se si ritrovasse nel suo Friuli o in Emilia, il senso di gioiosa “leggerezza”, la ritrovata “felicità” di quando era ragazzo e aveva «davanti un’estate eterna»: il mito narcisistico dell’infanzia si fonde con la visione metastorica di un “passato” incontaminato, che solo il Meridione italico ancora per lui possedeva. Ed è a questo punto che subentra la ricerca delle origini: Pasolini è preso da un’«ossessione deliziosa» di andare “sempre più” a Sud; in Sicilia ripete freneticamente che “non si ferma”, non può fermarsi, deve scendere «più giù», verso le punte “estreme”, dove lo sospinge il “demone” del viaggio; arriva, quindi, a Capo Passero, attraversa in barca «un piccolo braccio di mare, reso turchino e rosa dalla luce morente», raggiunge un’isola di fronte a Porto Palo e, avvolto dall’«ombra tenerissima, odorosissima della notte», fa il bagno «nella più povera e lontana spiaggia d’Italia». La scena finale è un’immersione sacra, pauperisticamente francescana, in acque lustrali; e, tuttavia, ambiguamente avviene in un mare Mediterraneo, che non è il «caro, dolce, domestico Adriatico», ma il «tremendo, nemico, preumano Ionio». Pasolini appare turbato dallo Jonio, che definisce “selvaggio”, “straniero”, espressione di un caos “sottoumano”, ma, proprio per questo, «seducente»: è, infatti, il mare di Odisseo e della sua Itaca, l’isola delle radici, la patria dell’anima, il mare da cui nacque Venere, dea della bellezza e della fecondità, cantato dall’inclito verso di Omero, il mare di Foscolo e della sua Zante, la materna terra della nascita e della morte. E, pertanto, la discesa di Pier Paolo nel profondo Sud, con il suo “corpo” nudo fasciato solo dalle ombre della millenaria “notte” meridionale e immerso nelle acque fatali dello Jonio, acquista una profonda risonanza simbolica, assurge a metafora dello sprofondamento regressivo nella dimensione prenatale, di un’improvvisa e rapida uscita dalla storia per ritornare e fondersi con l’informe e ignoto caos originario. Il viaggio pasoliniano tocca qui, nell’estremo lembo d’Italia, oltre il quale è l’Africa del favoloso Egitto dei papiri, il momento più significativo del suo percorso e di più intensa ispirazione poetica.

Nei testi prevale l’impegno civico

e non c’è traccia di retorica populistica

E, tuttavia, si sbaglia a ritenere univocamente il reportage un documento spesso venato di estetismo decadente e a volte incline al primitivismo astorico, perché, in questo stesso resoconto di viaggio, il Poeta delle Ceneri non solo è ben dentro la storia del proprio tempo, ma è anche, molto meglio di tanti altri intellettuali, sempre all’altezza del suo impegno civile, che non si atteggia mai a retorica populistica. Quando deve imbarcarsi a Capri per visitare la Grotta Azzurra, denunzia senza mezzi termini, con l’uso graffiante della “parola diretta” e con uno stile incisivo e asciutto, il “sistema” camorristico e omertoso delle privilegiate “gerarchie” isolane dominanti sui barcaioli, che fanno finta di non sentire e di ignorare il richiamo dei clienti, senza il loro «tacito permesso»; a Napoli, stigmatizza il degrado delle sue zone periferiche, dove sono i miseri tuguri delle “plebi” avvolti da odori “incredibili”, la mancanza di strade, di infrastrutture, di industrie; a Reggio Calabria, «drammatica e originale», colpito dal suo «barocco che pare di carne», dalle sue «cattedrali d’una ricchezza inaudita e quasi indigesta», avverte i lettori che tutto il resto, in questa città di «angosciosa povertà», è «provvisorio, cadente, miserabile, incompleto», tanto che sui camion si vedono scritte come “Dio aiutaci!”. Risalendo la costa calabrese lungo lo Jonio ha l’impressione di addentrarsi in un mondo non più riconoscibile, soprattutto quando la strada, lasciando il mare, «s’interna in una zona, tutta gialla, con le colline che sembrano dune immaginate da Kafka. Il tramonto le vela di un rosa di sangue»; giunto nei pressi di Cutro, non lontano da Crotone, avverte un Sud “pericoloso”, fuori dalla “legge” e dalla “cultura” della nostra civiltà, diviso tra “banditi”, che rapinano e ammazzano, operai costretti ad “atroci” lavori, in cui c’è un “guizzo” quasi di “pazzia”, ricchi borghesi e “baroni”, dediti al gioco delle carte nei loro palazzotti nobiliari, mentre tutto «intorno c’è una cornice di vuoto e di silenzio che fa paura».

Proprio l’episodio di Cutro fu al centro di un’aspra polemica, che dette modo a Pasolini di scrivere una delle più dure e lucide requisitorie contro il notabilato assenteista e la classe dirigente della Calabria, ancora una volta, senza cedimenti retorici e populistici, ma richiamandosi a fatti concreti e a inoppugnabili dati storici. Attaccato dai giornali filogovernativi calabresi, che lo accusavano di avere infamato e offeso la loro regione, nella lettera aperta a «Paese Sera», Pasolini ribadisce quanto aveva osservato e scritto per i lettori della rivista, che il crotonese era una delle aree geografiche più “depresse” d’Italia. La polemica cresce nel novembre 1959 quado Pasolini riceve il Premio Città di Crotone per Una vita violenta: si tenga presente che, mentre Cutro era un paese amministrato dalla Democrazia Cristiana, Crotone, a una ventina di chilometri di distanza, era amministrata dal Partito Comunista Italiano; di qui l’accusa mossa a Pasolini di avere ricevuto il premio letterario per spinte politiche. Nella giuria del premio era anche Giacomo Debenedetti, il nostro più grande critico letterario del secolo scorso.

Un’intelligenza lucida e concreta legge

nelle cose più della decadente politica

In quella agitata fine degli anni Cinquanta, i politici calabresi avevano alzato il polverone dello scontro come “pretesto” e “tattica elettorale”, spacciandosi per difensori della tradizione e speculando retoricamente sull’importanza dei siti archeologici, come se il poeta, che proprio in quei giorni cominciava la traduzione dell’Orestiade di Eschilo per il teatro di Vittorio Gassman, fosse insensibile al fascino e alla cultura della Magna Grecia. Per Pasolini, agitando ipocritamente il folclorismo locale, si stavano eludendo i “problemi veri”, perché i poveri abitanti di Cutro, condannati quasi in massa per furto di legna nella tenuta di un barone del posto, intanto erano stati da lui chiamati “banditi”, in quanto privati del diritto di voto e, dunque, banditi dalla società, che stava con baroni e politici asserviti. Ed erano proprio questi, governanti e onorevoli deputati, che, interessati a occultare e a perpetuare una situazione di degrado, si dimostravano privi di pietà cristiana e di «senso storicistico, senza cui è impossibile vivere da uomini civili», non riuscendo a rendersi conto che la storia della loro terra, soggetta a secolari e tiranniche dominazioni straniere, paternalisticamente “sottogovernata” e totalmente depressa, implicava «necessariamente il banditismo», fatale sbocco di «una popolazione nei cui caratteri sociali si mescolano una dolorosa arretratezza e un fiero spirito di rivolta».

Va ricordato che, giusto venti anni dopo questa polemica, Corrado Stajano, in un racconto-inchiesta del 1979, racconterà la sorte degli abitanti di Africo – un paesino situato sui contrafforti dell’Aspromonte e distrutto da una frana all’inizio degli anni Cinquanta –, che furono costretti a ricostruirlo sulla costa jonica, sotto il controllo nefasto e corruttore della mafia calabrese, collegata ai ceti dominanti e infiltrata nelle istituzioni, fino a servirsi come alleato di un sacerdote, poi scoperto e condannato. Ancora una volta, attaccando il malgoverno delle classi dominanti, formate da una borghesia mediocre, “conformista” e ipocrita, Pasolini aveva saputo leggere con intelligenza lucida e concreta nella realtà delle cose, perché, come dimostra la drammatica vicenda degli Africoti, sradicati dalla loro terra di origine, dopo due decenni, alla fine degli anni Settanta, le condizioni economiche, sociali e politiche della loro Regione non erano affatto cambiate; anzi, erano peggiorate anche sul piano etico e civile.

Pier Paolo rivendica con fiero orgoglio di essersi sempre interessato ai problemi delle “classi povere, proletarie e sottoproletarie”, ricordando il poemetto La Terra di Lavoro di Le ceneri di Gramsci, «che riguarda proprio il Sud e le sue misere e abbandonate popolazioni», ma evoca soprattutto, ricorrendone il decimo anniversario, i tragici “fatti di Melissa”, in provincia di Crotone, dove nel 1949 erano stati uccisi dalla polizia di Scelba i braccianti, che avevano occupato il latifondo Fragalà, e dove erano già «i germi per la rinascita della Calabria e del Sud». In quell’occasione, una poesia di Gino Baglìo sull’eccidio di Melissa, pubblicata sul quotidiano del Partito Comunista, diventa oggetto di ammirata e partecipe riflessione da parte di un diffusore friulano dell’«Unità»: Pasolini, nei Cantari di Germani Bruno, questo il nome del giovane, immagina che egli la commenti, e riporta, alla fine della lettera aperta, i suoi versi, allora inediti. Gli ultimi trascritti non solo chiudono, almeno per lui, la polemica, ma rappresentano anche la conclusione, inaspettatamente recuperata da una poesia composta dieci anni prima, del suo viaggio estivo nel Sud d’Italia, la cui scrittura rivela una duplice componente, visionaria e storica nello stesso tempo, scopre un Pasolini che, pur in un reportage giornalistico, peraltro definito “stenografato” Reisebilder, riesce a essere contemporaneamente poeta di inquieta tensione conoscitiva e intellettuale civilmente impegnato.

 

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