Al mattino ti prepari il caffè con la tua vecchia moka-due-tazzine e guardi orgoglioso il pacchetto di gran marca a cui sei affezionato, perché ha le diciture “Responsabilità sociale”, “Filiera controllata”, o perfino i marchi delle certificazioni Fairtrade, 4C certified o Rainforest Alliance. Ti senti felice, perché stai contribuendo a sostenere l’ambiente, a rispettare i diritti dei lavoratori e soprattutto perché sei certo di bere un caffè sincero, rispettoso… peccato che -come in tante altre pubblicità di questi tempi liquidi- la tua sensazione sia alterata, del tutto costruita a tavolino.
Da anni, specie in questi ultimi, i marchi del caffè più importanti ci propinano la favoletta della sostenibilità e dell’equità. Ed hanno fatto ciò che la comunicazione d’impresa sa fare meglio: mettere la coscienza del consumatore a posto, in modo che chi compra -specie noi ecologisti senza cazzimma, portati a informarci poco- si sen

ta tutelato, buono, più buono del prodotto stesso. Quindi, quella è solo comunicazione di marketing? SI. È artificiosa? SI. È ingannevole?… NI: la regola aurea dell’artificio è sempre la stessa: incollare mezza bugia a mezza verità.
La bella favola del chicco etico e amaro
Secondo diverse inchieste giornalistiche fatte da BBC, Al Jazeera, The Guardian, Repórter Brasil (le altre fonti le mettiamo in calce al presente) in molte piantagioni a filiera controllata se non addirittura certificate ci sono normalmente turni di lavoro di 17 ore, assenza di servizi igienici, salari da fame, nessun contratto e lavoro minorile a gogò.
Però il pacchetto che finisce sugli scaffali occidentali porta i bollini “etici” dei grandi enti di certificazione che assicurano filiere pulite, orari di lavoro e salari degni; è il marketing dell’ipocrisia: nessuno di questi enti garantisce al 100% condizioni di vita dignitose per i lavoratori… E come potrebbero? Si limitano a verifiche a campione, con controlli fissati tempo prima, criteri e procedure facilmente aggirabili. Gli Enti certificano a volo radente migliaia di aziende agricole con pochissimo personale di controllo: le Multinazionali lo sanno, pagano la quota volentieri e sono contente.
La pubblicità cerca di recuperare e ci rivende il sogno di una tazzina di caffè rispettosa
Come funziona questa magia? La sceneggiatura è sempre la stessa, barbosa e stucchevole:
- L’etichetta: simbolo verde, una foglia, una stretta di mano, un sorriso.
- Lo storytelling: “Aiutiamo i piccoli coltivatori”, “rispettiamo la natura”, etc..
- Il target: il consumatore istruito, progressista, magari bio-vegano, di buon cuore.
È l’equivalente del “non testato sugli animali” messo su un detersivo che già non lo era. Non è più Greenwashing, è molto di più, è cosmesi etica costruita per vendere una schiavitù effettiva.
Pubblicità ingannevole? Non esattamente.
Qui non c’è una bugia netta (regola 1a: mai dire bugie oltre il 50%!), è solo verità alterata. Le aziende mostrano il lato bello del loro “impegno” e usano la certificazione come uno scudo. Ma la realtà -quella dei campi di caffè in Brasile, Honduras, Uganda- è che tanti lavoratori di piantagioni certificate non vedono alcun miglioramento concreto rispetto alle piantagioni non certificate. E mentre il prezzo del caffè sale, chi lo raccoglie continua a guadagnare pochi cent al giorno.
E l’ambiente? Anche peggio.
Nel 2017, secondo una stima citata nella mail di denuncia di alcuni attivisti, la produzione globale di caffè ha causato una deforestazione tale da emettere l’equivalente di 4,5 milioni di auto in circolazione. Altro che sostenibilità! Intanto, le pubblicità mostrano campi verdi, coltivatori sorridenti, colibrì che svolazzano tra le piantagioni. Il marketing sa bene che un’immagine ben scelta vale più di un report ambientale.
Facciamo i conti della serva alla “filiera economica del caffè”
Un chilo di caffè viene prodotto a 6-7000 Km lontano da noi, attraversa l’Atlantico nelle navi per arrivare fino alla nostra tazzina. Ma il denaro, prende cento altre strade. Chi ci guadagna?
Un coltivatore guadagna (vedi fonti) in media da 0,75 a 2 € per 1 kg di caffè verde, crudo, ovviamente in base alla qualità; a volte la povertà è così tanta che viene pagato in natura.
L’industria lo importa, lo la vora, lo tosta, lo confeziona, lo distribuisce: Costo industriale per l’azienda di gran nome, quando non addirittura multinazionale: 5-8 €/kg, più o meno, non di più.
Nei supermercati noi compriamo il caffè di buona qualità tra i 16 e i 28 €/Kg nelle confezioni da 250 gr.: non male come ricarico!… ma i Bar, le caffetterie, etc, quanto pagano le miscele-Bar? Prezzo medio per Bar: 8-15 €/kg circa, sempre in base alla qualità. Un bar medio italiano fa dai 200 ai 400 caffè al giorno, in Campania la media raddoppia e a Napoli in diversi punti triplica, fino a giungere ai Top Bar Mexico e Gambrinus, con 1300 ca tazzine al giorno e fino a 2200 in occasione di festività, eventi sportivi e picchi di turismo estivo e natalizio.
Da 1 kg di caffè si ricavano 120-140 “dosi” da 7 grammi e quindi 120-140 tazzine. Costo per tazzina in materia prima: 6-10 centesimi. Prezzo al cliente: 1,20 – 1,50 €. Margine lordo per il Bar? Fino al 1000% sulla materia prima… ma chi raccoglie i chicchi prende meno di 2 cent a tazzina.
E noi consumatori, cosa facciamo?
Serve una disintossicazione collettiva dal consumo di coscienza preconfezionato. Serve smettere di pensare che basti un bollino verde per sentirsi a posto. Dobbiamo pretendere, forse, un nuovo tipo di comunicazione, meno spot farlocchi, più verità, meno storytelling pubblicitari, più inchieste giornalistiche. Meno like sotto le foto su Instagram, più pressione reale verso le aziende e gli enti di certificazione cercando di non sostenere quelli che strozzano i campesinos.
Prendendo un caffè aderiamo a una catena dove il 90% dei marchi importanti non sta “aiutando il terzo mondo”, non sta “dando lavoro equo”, non sta favorendo una “raccolta sostenibile”, sta semplicemente tenendo in piedi un sistema collaudato di sfruttamento dei più deboli; insomma mentre beviamo il loro caffè partecipiamo tutti ad una cosmesi eticache fonda su una schiavitù lavorativa.
… È vero che il caffè va bevuto amaro: ma così diventa proprio fiele.
Fonti dell’articolo:
- Financial Times, Coffee under threat, 2021. Inchiesta su cooperative Fairtrade in Perù che operano in aree protette e pagano sotto il minimo legale.
- Vice, Fair Trade Found to Be Failing Farm Workers, 2014. Ricerca sul campo in Etiopia e Uganda mostra condizioni peggiori per i lavoratori certificati rispetto ai non certificati.
- University of London, Fairtrade, Employment and Poverty Reduction, 2014. Studio su 23 cooperative africane: impatto nullo sul benessere dei braccianti.
- WSJ, Nestlé and Starbucks Supply Chains Scrutinized, 2023. Sfruttamento in piantagioni cinesi certificate 4C e C.A.F.E. Practices.
- Fair World Project, Fairwashing: The Failure of Certification, 2023. Analisi delle contraddizioni strutturali nei sistemi di certificazione etica.
- Daily Coffee News, Certification Doesn’t Help the Poorest Farmers, 2014. Solo i contadini “ricchi” riescono ad accedere alle certificazioni.
- Wikipedia, Fair Trade Debate. Voce enciclopedica con fonti accademiche e giornalistiche di approfondimento.
 
                    
                

 
             
             
             
             
            