La geopolitica del caos nella crisi neoliberale

Di certezze ce ne sono poche. Nonostante i report dell’Aiea, non è possibile stabilire se il presupposto in base al quale nella notte tra l’11 e il 12 giugno scorsi Israele ha sferrato un violentissimo attacco armato contro l’Iran abbia un qualche fondamento di verità, o non piuttosto sia solo una grossolana replica, 22 anni e qualche milione di morti dopo, della clamorosa menzogna con cui Tony Blair preparò il terreno per la seconda guerra del golfo. Va per fortuna maturando velocemente una coscienza antagonista che ha pochi punti in comune con quella che, all’inizio del millennio, ne accompagnò i primi passi, perché diversa è la composizione del blocco sociale...

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Saddam Hussein

È uscito da qualche giorno il nuovo numero di Critica Sociale, la rivista del socialismo italiano fondata nel 1891 da Anna Kuliscioff e Filippo Turati e co-diretta da Massimiliano Amato. “Guerra continua” è il titolo dell’interessante, atteso e ricchissimo fascicolo. Esplicativo ed emblematico il sottotitolo: “L’Occidente nella rete del conflitto permanente. Il fallimento della visione neoliberale può spingere il pianeta verso il baratro”. Articoli e saggi a firma dello stesso Amato, di Paolo Borioni, Norberto Fragiacomo, Domenico Gallo, Sara Gentile, Bruno Gravagnuolo, Giorgio Pagano e Giuseppe Sarno. Pubblichiamo, per gentile concessione dell’editore e dell’autore, l’editoriale di Massimiliano Amato. 

 

Di certezze ce ne sono poche. Nonostante i report dell’Aiea, non è possibile stabilire se il presupposto in base al quale nella notte tra l’11 e il 12 giugno scorsi Israele ha sferrato un violentissimo attacco armato contro l’Iran abbia un qualche fondamento di verità, o non piuttosto sia solo una grossolana replica, 22 anni e qualche milione di morti dopo, della clamorosa menzogna con cui Tony Blair preparò il terreno per la seconda guerra del golfo. Oggi sappiamo che l’allora premier inglese mentì spudoratamente e clamorosamente davanti all’opinione pubblica mondiale attribuendo all’Iraq di Saddam Hussein il possesso di armi chimiche di distruzione di massa. E il segretario di Stato Usa Colin Powell ci mise del suo con la storia delle false fialette di antrace. Non vorremmo attendere un altro ventennio, e chissà quanti altri milioni di morti, per sapere se oggi, giugno 2025, il regime degli ayatollah di Teheran possieda veramente la bomba atomica. Perché il problema principale dell’ultimo episodio di quella che con felice espressione il mai troppo compianto Papa Francesco definì poco prima di morire “terza guerra mondiale a pezzi”, resta questo. Di fronte al sospetto che l’azione di Israele non sia soltanto illegale secondo il dettato del Diritto internazionale (e lo è, in maniera incontrovertibile), ma anche illegittima, cade ogni discussione. L’attacco che destabilizza ulteriormente e in maniera significativa lo scacchiere mediorientale non può non essere letto all’infuori di questa dimensione, all’interno della quale è saltata qualsiasi linea di demarcazione tra verità e menzogna, e la stessa Aiea – diretta da un signore, Rafael Grossi, messo lì al posto dello svedese Hans Blix poco gradito alla Casa Bianca a fare da notaio alle decisioni che si prendono a Washington, Londra, Parigi e Tel Aviv – possiede la medesima attendibilità di una moneta da tre euro. Le notizie, quelle vere, che fanno fatica a bucare la spessissima cortina di bugie eretta per giustificare l’attacco di Israele, parlano di un avanzamento del programma nucleare iraniano negli ultimi mesi, attestatosi intorno al 60%. Insomma, non c’era nessuna urgenza: per ora l’atomica non c’è. Di più: è ancora parecchio lontana.

Tanti i profili

di illegittimità

Ma i profili di illegittimità non terminano qui. Nessuno nel civilissimo e democraticissimo Occidente si è finora preoccupato di spiegare, per esempio, in base a quale criterio un Paese con meno di 10 milioni di abitanti distribuiti su una superficie di poco più di 22mila chilometri quadrati, Israele, abbia il diritto di detenere l’atomica, e possa attaccare senza alcuna giustificazione un altro di 92 milioni di abitanti, sparsi in un territorio dieci volte più grande di quello della penisola italiana, a cui lo stesso diritto viene contestato. Nonostante questo Paese, l’Iran degli ayatollah, a differenza degli attaccanti che non l’hanno mai fatto, abbia sottoscritto il Trattato di non proliferazione nucleare. E, sulla base di questa adesione, non abbia mai sbarrato le porte alle ispezioni periodiche dell’Aiea, vietate in Israele. Sempre dimostrando, con i propri tecnici e ingegneri, l’assoluta innocuità, per ora, del proprio programma nucleare.

Benjamin Netanyahu

criminale di guerra

E allora, se le premesse sono queste, ha diritto di cittadinanza qualsiasi pensiero cattivo. Il primo. L’attacco all’Iran rappresenta, per il criminale di guerra Benjamin Netanyahu, inseguito da un ordine di cattura internazionale emesso dalla Corte Suprema dell’Aja, la “mossa del cavallo” pensata per uscire dall’angolo in cui Israele si è cacciato con il genocidio nella Striscia di Gaza. Gli orrori perpetrati dall’esercito di Tel Aviv contro i gazawi, lo sterminio scientifico e sistematico di donne, anziani e

Teheran

bambini che ha sollevato una gigantesca quanto legittima ondata di raccapriccio nell’opinione pubblica internazionale stava costando a Bibi l’appoggio finanche delle stesse lobby delle armi e della guerra israeliane, ultimo baluardo dietro il quale si era protetto dopo essere stato abbandonato, anzi ripudiato, dalla maggioranza dei cittadini dello Stato ebraico. Perfino i grandi network informativi filo occidentali, con i loro opinion maker in servizio permanente effettivo 24 ore su 24 per costruire e presidiare lo spazio della narrazione mainstream, avevano cominciato a prenderne le distanze.

Per recuperare terreno e, nello stesso tempo, distogliere lo sguardo del mondo dalla macelleria in atto nella Striscia, il primo ministro di Tel Aviv, destinato a passare alla storia come l’uomo politico israeliano che più si è speso per alimentare e diffondere la malapianta dell’antisemitismo dalla scoperta dei campi di sterminio nazisti ai giorni nostri, aveva bisogno di creare il “nemico perfetto”. Un Paese, cioè, che nell’immaginario internazionale occupasse il ruolo di quello brutto, sporco e cattivo. E, con il tacito assenso delle altre leadership occidentali, la statunitense prima di tutte seguita a ruota da quelle europee tra cui la nostra, si è buttato sul bersaglio più semplice: a Bibi piace vincere facile.

Rapsodiche convulsioni

della globalizzazione

L’attacco all’Iran, dunque, trova un preliminare orizzonte di giustificazione teorica nella geopolitica del caos in cui l’Occidente è stato risucchiato dalle contraddizioni e dalle rapsodiche convulsioni della globalizzazione neoliberale. Accentuate, queste ultime, dalla crescita dell’importanza politica, economica e presto anche militare, di quel gruppo di Paesi che sono scesi dal carrozzone e adesso rappresentano una minaccia per gli equilibri consolidati durante gli anni della dittatura dell’economia finanziarizzata, ma molto più di una speranza per chi vede nel ripristino di una dinamica multipolare l’unica, concreta, traccia di sviluppo pacifico della situazione internazionale nel breve e nel medio periodo. Lo sconvolgimento in atto ha già lasciato sul campo – nonostante lo scomposto movimentismo privo di approdi delle sue confuse e tentennanti cancellerie – una vittima eccellente: l’Unione Europea. Organismo capace, in una bizzarra eterogenesi dei fini, di far coincidere il punto massimo di integrazione formale e istituzionale tra i Paesi membri con la dissoluzione completa del progetto di Europa costruito sulle macerie fumanti della Seconda guerra mondiale: un’idea che ha garantito 80 anni di pace. All’interno di questa macedonia impazzita hanno trovato nuovi detonatori le più deleterie tendenze del lunghissimo dopoguerra, arginate da quella superiore razionalità che sempre era riuscita a prevalere nei tornanti più drammatici della storia continentale e mondiale. Tra esse, la tensione Est-Ovest che si ripropone in termini allarmanti nella contrapposizione ormai frontale tra l’asse franco-anglo-tedesco e la Russia (con l’Italietta meloniana a rimorchio degli altri partner europei, diffidenti verso la sua politica “dei due forni” per via di quella inesausta vena di reciproca simpatia che corre tra la Casa Bianca e Palazzo Chigi) e, collegata a essa, l’infinito redde rationem a rilascio prolungato nel Vicino Oriente tra le pretese egemoniche di Israele e le legittime aspirazioni di quella parte del mondo arabo più prossima allo Stato ebraico.

Occhio alla minaccia

nucleare diffusa

Nel suo “Padre e re. Filosofia della guerra”, edito da Castelvecchi, Umberto Curi sottolinea efficacemente come, in quest’epoca segnata dal ritorno della minaccia nucleare e da conflitti diffusi, la guerra da “prosecuzione della politica con altri mezzi” si sia definitivamente trasformata nella negazione della politica. Una “globalizzazione del disastro” che chiama alla sbarra la civiltà occidentale, impegnata in permanenza a dichiarare guerra al resto del pianeta per preservare i propri privilegi economici e il proprio stile di vita in spregio alla drammatica dinamica della contrazione delle risorse a disposizione dell’umanità. Lo scenario che abbiamo di fronte conferma in pieno questa intuizione. La geopolitica del caos dell’Occidente poggia su una mancanza totale di strategia del principale attore (la nuova amministrazione statunitense, ma in parte anche quella immediatamente precedente) e su una completa liquidità tattica, agita in un meccanismo di interdipendenza con le pressioni delle lobby delle armi e della grande finanza. Autocondannatesi a un ruolo ancillare e subalterno, le deboli democrazie europee – per lo meno le principali – avallano continue, clamorose violazioni del Diritto internazionale attraverso la totale rinuncia a esercitare una funzione di mediazione. Lo stesso Trump – lo dimostrano sia l’ondivago comportamento sul conflitto tra Russia e Ucraina che il sostanziale disinteresse per il martirio di Gaza – appare ostaggio di quello che gli analisti di politica internazionale più avvertiti definiscono “lo Stato profondo”, struttura trasversale e opaca che si annida nel ventre delle burocrazie militari e economiche occidentali. Su tutto domina l’esigenza di rifinanziamento continuo della bolla speculativa su cui si regge in questo momento il mercato finanziario internazionale, legata all’industria degli armamenti. La Ue ha svolto diligentemente il compitino, con il piano Von der Leyen, e gli stati membri – a partire dalla Germania e con la sola eccezione della Spagna – si sono immediatamente adeguati.

Speriamo nella coscienza

morale degli antagonisti

Sbaglierebbe di grosso, però, chi lasciandosi prendere dallo scoraggiamento, battezzasse tutto ciò come irreversibile. L’attuale situazione internazionale rappresenta di per sé un punto di rottura profondo e irreparabile dell’egemonia neoliberale, così come è andata configurandosi negli anni della globalizzazione trionfante. Contro di essa va maturando velocemente una coscienza antagonista che ha pochi punti in comune con quella che, all’inizio del millennio, ne accompagnò i primi passi, perché diversa è la composizione del blocco sociale. Le proteste in California contro le politiche trumpiane di re-migration, le piazze europee pro Gaza, e anche il generale ripensamento intervenuto nelle opinioni pubbliche nazionali sulle responsabilità della Nato nello scoppio del conflitto russo-ucraino, portano alla luce un’inedita convergenza di interessi e di motivazioni ideali tra diversi strati sociali, meno “marginali” e più “integrati” al sistema, e oggi potenzialmente ostili alle oligarchie che hanno espropriato le democrazie occidentali. Sapremo molto presto se c’è vita su Marte; se cioè questa convergenza, tuttora in formazione, sarà capace di trasformarsi nella massa critica necessaria per la costruzione di un nuovo orizzonte di cambiamento mondiale.

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