Negli ultimi tempi l’Italia è stata di nuovo scossa da una lunga e dolorosa scia di femminicidi. Donne uccise da uomini che avevano amato, con i quali avrebbero voluto un futuro insieme o perché avevano detto un “no”, perché volevano ricominciare altrove o solo perché avevano scelto di essere libere. In una società che si definisce moderna e democratica, il fatto che una donna rischi la vita semplicemente per il fatto di volersi autodeterminare è una sconfitta collettiva.
Contro questa realtà, comprensibilmente, si levano tante voci indignate, tra queste, una qualche giorno fa quella di Nicoletta Tancredi, che su Resistenze Quotidiane ha scritto un articolo molto forte intitolato “Maschi, curate l’invidia che vi rode anziché uccidere le donne“. Un pezzo scritto con rabbia, dolore e passione, ma che mi ha colpito come padre di due figlie e come CEO di aziende di marketing che – per 40 anni – ha sempre preferito assumere e lavorare con colleghe donne per la loro lealtà, sensibilità e serietà, e che ora vede orgogliosamente molte di esse a capo delle R.P. o della comunicazione di aziende, consorzi in Italia e all’estero.
Nel suo impeto, la Tancredi sembra scivolare in una generalizzazione pericolosa: quella secondo cui gli uomini per natura sarebbero potenzialmente portatori di odio, violenza e soprattutto invidia verso le donne. Il rischio della demonizzazione collettiva, sociologicamente parlando, attribuisce a una metà dell’umanità (quella maschile) un’inclinazione alla sopraffazione e all’invidia… è una semplificazione grave, non solo perché alimenta una narrazione tossica e divisiva, ma anche perché distoglie l’attenzione dal vero nemico: il sistema patriarcale. Il patriarcato non è l’uomo in quanto tale. È un sistema culturale, storico, simbolico ed economico che ha assegnato ruoli di potere, controllo e dominio al maschile, relegando il femminile alla dipendenza, al silenzio, alla sottomissione. Un sistema che ha plasmato l’immaginario collettivo, le istituzioni, la famiglia, l’educazione, la religione.
Ma suggerire che tutti gli uomini siano “naturalmente” inclini all’odio verso le donne significa attribuire a ogni singolo individuo maschio una responsabilità collettiva senza distinguere tra quei pochi che perpetuano quel sistema e i tantissimi che, invece, lo abiurano. Se allarghiamo lo sguardo, notiamo che la quasi totalità degli uomini italiani non commette atti di violenza, anzi, moltissimi sono coinvolti in attività di prevenzione, di educazione affettiva, di supporto alle vittime.
Sono padri, fratelli, insegnanti, colleghi, amici, compagni che lottano contro la violenza, che cercano modelli alternativi di maschilità, che rifiutano la logica del possesso. Ridurre tutti gli uomini a potenziali femminicidi è controproducente, rischia di creare una polarizzazione sterile tra “buoni” e “cattivi”, tra vittime e carnefici, laddove invece serve una riflessione collettiva e complessa.
Educare è la vera rivoluzione
Come si combatte il femminicidio? Con le leggi, sì; …con il codice rosso, ok!; …con l’aggravante di genere, certo!; …con strumenti giuridici adeguati, sicuro!… Ma soprattutto con l‘educazione, questa è la rivoluzione… a cosa serve mettere il genere al muro?
Serve una rivoluzione culturale che cominci dalle scuole, dalle famiglie, dai media. Una rivoluzione che insegni ai bambini che le emozioni si possono esprimere, che il rifiuto non è una ferita all’onore, che l’amore non è possesso. Che si può essere uomini senza essere dominanti, aggressivi, competitivi. E per fare questo, servono anche gli uomini come esempi, non come colpevoli in potenza ma come alleati attivi, come modelli positivi, come testimoni di una maschilità nuova, capace di ascolto, vulnerabilità, cura… ma servono anche le donne, le mamme dei maschi in particolare.
Ai miei nipotini, tutti maschi, in famiglia insegniamo, e insegno, che le bambine vanno protette, amate, difese e le maestre ci dicono che essi si ergono sempre a difesa delle bimbe, anche verso amichetti maschi più grandi un po’ prepotenti. La libertà delle donne è libertà di tutti: Nicoletta Tancredi scrive con orgoglio “…Continuiamo a crescere le nostre figlie, spronandole ad essere curiose, a studiare, a conoscere, a viaggiare, a brillare, ad essere libere, ad amare, a vivere“: giusto e sacrosanto. Ma è altrettanto importante crescere anche i maschi con i valori di tolleranza, rispetto e soprattutto amore.
Perché un uomo cresciuto nella paura del fallimento, nel culto della forza, nell’idea che debba sempre controllare e vincere, sarà un uomo infelice, e nei casi peggiori, pericoloso.
Educare alla libertà significa insegnare il rispetto dell’altro, la gestione delle emozioni, la capacità di elaborare un abbandono. Significa togliere il mito del “vero uomo” e sostituirlo con l’idea di una persona capace di relazioni sane. Non deve essere una guerra tra sessi, il femminicidio non è un problema che riguarda solo le donne. Riguarda la società tutta. E si affronta solo insieme. La lotta contro la violenza di genere non può trasformarsi in una guerra tra sessi, in una continua accusa contro il maschile in quanto tale.
Se vogliamo davvero cambiare, dobbiamo costruire alleanze. Dobbiamo ascoltarci, comprenderci, sostenerci. Le donne non devono arretrare di un millimetro nella loro libertà. Ma gli uomini devono essere messi nelle condizioni di rivedere il proprio ruolo senza essere umiliati o disprezzati, come purtroppo appare nell’articolo citato.
Serve una nuova narrazione pubblica che superi il dualismo buono/cattivo. Che non banalizzi con slogan, ma che costruisca discorsi complessi, articolati, rispettosi. Dove ci sia spazio per il dolore, sì, ma anche per la speranza. Dove ci sia condanna della violenza, ma anche valorizzazione delle alternative. Oggi più che mai, abbiamo bisogno di uomini e donne che si riconoscano come soggetti liberi e responsabili. Che sappiano stare nella relazione senza dominio, senza paura, senza odio. Perché è in quella zona grigia, quotidiana, dove si formano le persone, che si costruisce il futuro.
Il Patriarcato: retaggio culturale o destino biologico?
Alcuni si chiedono se il patriarcato sia un riflesso inevitabile della nostra biologia, magari derivante dalle strutture di potere osservabili nel mondo animale. In effetti, molte specie di mammiferi, primati inclusi, mostrano gerarchie dominate da maschi alfa. Tuttavia, l’essere umano ha una caratteristica fondamentale: la capacità di creare cultura. E la cultura non è fissa, né determinata dai geni. È frutto di simboli, linguaggio, educazione, relazioni.
Anche se il patriarcato può avere avuto un’origine funzionale in contesti arcaici – legata alla forza fisica o al controllo delle risorse – oggi è un sistema che non solo è superato, ma anche dannoso. Non siamo scimmie in branco. Siamo esseri dotati di coscienza, etica e responsabilità. L’idea che gli uomini debbano dominare non è naturale, è appresa. E come è stata appresa, può essere disimparata.
Liberarsi dal patriarcato non significa negare il maschile, ma riconoscerne la pluralità. Significa costruire insieme una nuova idea di umanità, dove nessuno debba ricorrere al dominio per sentirsi realizzato. Dove il potere non sia sopra qualcuno, ma con qualcuno.
Questo è il salto evolutivo che ci aspetta. Ed è ora di farlo perché la violenza maschile sulle donne è un fenomeno sistemico, storico, strutturale. Ma non è inscritto nel DNA degli uomini. Non è un destino biologico. È frutto di una cultura che si può cambiare. Anzi si deve.
Demonizzare, umiliare o disprezzare gli uomini non aiuta. Aiuta invece coinvolgerli, ascoltarli, responsabilizzarli. Chiedere loro di schierarsi, di mettersi in discussione, di essere parte del cambiamento. Non per senso di colpa, ma per senso di giustizia.
Se vogliamo una società dove nessuna donna debba più temere per la propria vita, dobbiamo costruirla insieme. Uomini e donne, con pari dignità, pari valore, pari libertà. Perché la libertà delle donne è anche la libertà degli uomini. E viceversa.