Cappuccio contro la discriminazione dello smooth-jazz

Il chitarrista casertano si dichiara lontano dalle ‘politiche aziendali’ ipocrite dell’attuale e scadente musica pop italiana

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Mimmo Cappuccio, maturo musicista di origini casertane e con un progetto di smooth jazz/nu jazz in tasca da portare avanti, inizia giovanissimo a studiare chitarra e basso elettrico. Successivamente intraprende gli studi di armonia jazz (materia di primaria importanza per affrontare lo studio della tecnica dell’improvvisazione e della composizione jazz in modo consapevole) frequentando seminari e stage sulle tecniche di arrangiamento e composizione musicale. Segue, ancora, corsi di perfezionamento sulla tecnica del suono con utili esperienze negli States (Buffalo e New York) ed in Inghilterra (Londra.) Svolge per anni l’attività di produttore artistico e Sound Engineer sia in Italia che all’ Estero.

Tra le produzioni e collaborazioni, su tutte: Riccardo Fogli, Gatto Panceri, Jean Michel Byron (cantante sudafricano noto per essere stato, durante i primi anni novanta, il cantante dei Toto), Giuseppina Torre, Leonardo Monteiro. Per alcuni anni è stato direttore artistico di ‘Draka Production’.

La tua musica è un insieme di suoni e di colori che generano umore raffinato e internazionale, un mood per chi respira musica: dal jazz al funky fino allo smooth jazz. Tutto nasce dall’incontro fortuito tra due musicisti diversi per storia e vissuto artistico, ‘Cappuccio & Schinaia’, (rispettivamente in arte Mr.K e Skina). Ma veniamo alla chitarra ed alla scelta definitiva di strumento a corde, perché?

Fui stregato da quel sound aggressivo di alcuni chitarristi rock e tra questi il grande Carlos Santana. In seguito, diversi amici e colleghi mi dissero di un mago della chitarra,  avrei dovuto ascoltarlo assolutamente. Si trattava di George Benson e qui si aprì un mondo, mi si allargarono gli orizzonti e tutto questo mi spinse ad iniziare gli studi di armonia e improvvisazione jazz. Ammiravo già da tempo il grande Gigi Cifarelli ed iniziai ad ascoltare, soprattutto Kenny Burrell, Wes Montgomery, Joe Pass ed altri che immediatamente mi fecero cambiare rotta. Il rock del mio mondo adolescenziale, pur rimanendo la base sulla quale ero cresciuto, andò quindi in cantina per lasciar posto al jazz.

Come dovrebbe essere, per te, la figura del chitarrista jazz ideale?

Personalmente credo che un chitarrista di jazz debba portare nel suo bagaglio musicale, nella sua storia, un po’ di rock, un po’ di … definiamola giusta dose di ‘trasgressione’. Il rock è generazionale, è aggregativo ed è – come nel calcio – la cosiddetta costruzione dal basso.

Al tramonto dei mitici anni settanta, che aveva sfornato un esercito di artisti e favolose band, Cappuccio ascoltava, per radio,  un brano particolare dell’indimenticabile Pino Daniele.

Pino per generazioni è stato un mito ed è stato così anche per me. Quel suo brano era molto blues, o meglio un buon compromesso tra le culture blues/jazz e la nostra melodia italiana. Incuriosito da questo fenomeno, fui stimolato a comporre canzoni con accordi ricercati, tipici del jazz e della musica ricca di contaminazioni. Pubblicai, spinto da questa verve partenopea, in questo modo, due vinili come cantautore. Come d’improvviso,  mi ritrovai in programmi televisivi Rai insieme a Raf, ma il mio carattere un po’ introverso e soprattutto schivo, la voglia di una ‘ricerca non convenzionale’, mi fecero trincerare, successivamente, in quella ‘macchina fatta di bottoni e pulsanti e tra l’analogico ed il digitale: ovvero nel mio studio di registrazione, nella produzione in studio e la discografia.

Fu data vita a un’etichetta discografica e per diversi anni investì moltissimo di sé nella gratificante scoperta di giovani talenti, accompagnandoli nei rituali Contest e Talent cercando di puntare con determinazione sui ragazzi ‘emergenti’. Come gira oggi per uno che ha sempre cercato le giovani leve come un talent scout?

Beh!  Diciamo che oggi sono un po’ meno producer e più chitarrista. Non prediligo e sono lontanissimo dalle ‘politiche aziendali’ ipocrite dell’attuale e scadente musica pop italiana. Il mio essere chitarrista non vuole però entrare a gamba tesa in nessun ambiente professionale del jazz ma, per rispondere alla domanda, devo dire, per quello che mi riguarda, che gira bene, anche perché porto avanti un progetto del quale vado fiero e qui potrebbe girare meglio.

Si sente il montare della ribellione che hai dentro…

Diciamo che sono riuscito a realizzare il mio project e grazie ad esso continuo ad investire sui giovani talenti, missione che porto avanti per lo smooth jazz con caparbietà.

La questione della diversificazione musicale. Inutile stare qui a parlare dell’origine del jazz che è ancora, per qualche verso, leggermente confusa. Il jazz appartiene, senza dubbio, da una matrice americana ed afroamericana, importato poi, in tutti i continenti. Europa compresa. Da dove arriva questo jazz? Mi sembra di aver già affermato che le idee non sembrerebbero troppo chiare ma per quello che mi è dato sapere e per grosse linee, dai campi di cotone nascevano dei canti e lamenti spontanei, una musica di protesta contro l’apartheid ed i conseguenti divari di classe. L’apartheid non è altro che una politica di ‘segregazione razziale’, istituita nel 1948 dal governo di etnia bianca del Sudafrica. Politica letteralmente, almeno sulla carta, sconfitta. La ribellione a questa ‘lotta di classe all’inverso’, perpetrata dalle fazioni ultra benestanti (ancora oggi)  lo sfruttamento della classe povera, palese ancora sotto le più diverse forme, esiste ancora anche se ben nascosta all’occhio nudo o distratto. Tutto questo non è altro che l’espressione più becera e cattiva del ‘potere’ marcio che volta le spalle. Il jazz, figlio d’anarchia, attraverso le lamentele dei campi di cotone per poi passare al soul, al blues per poi finire nel contenitore definito jazz è ancora un moto o genere di lotta. Elegante, ma lotta vera contro un sistema che non può funzionare sino a quando vi sarà l’enorme forbice tra benestanti e ricchi sfondati e classe povera.

Ma secondo Mimmo Cappuccio la settarizzazione, dunque, esiste anche nella musica?

Non è proprio come negli anni della disparità ‘a palla’ ma siamo quasi vicini. Purtroppo, oggi, in Italia è ancora difficile fare Smooth Jazz ed è un problema di cultura.

Nel decennio 2010-2021 abbiamo visto l’esplodere di sottogeneri della musica elettronica che hanno avuto chiare influenze jazz (Nu Jazz, Electro Swing, Smooth Jazz, Pop Jazz). Il Nu Jazz è il genere che forse più si lega al jazz e meno all’elettronica, è una nicchia e continua ad essere tale. L’Electro Swing, nato come costola retrò della corrente house elettronica di fine decennio 2000 ha avuto un boom tra il 2008 e il 2014. Apprezzabile perché ha riportato, soprattutto nei primi tempi, in auge ritmiche e sonorità altrimenti scomparse, quando era una ‘novità’, ha rappresentato una alternativa valida alla musica da ballo. Il Pop Jazz ha avuto un boom, nello stesso periodo dell’electro swing, in cui si è vista una rivisitazione di molte sonorità retrò, a partire dalla famosissima Amy Winehouse.Il futuro? Certamente qualche altro artista jazz, stanco dei pochi numeri, si cimenterà in questo percorso, un evergreen.

Avverto con risentimento una sorta di “discriminazione musicale” in particolar modo proprio negli ambienti del jazz (e dei festival), dove invece dovrebbe esserci apertura a 360 gradi. Il mio progetto evoco proprio quel periodo tra gli anni ‘70 e ‘80 dove il jazz incontra altre forme musicali, dal soul al funk alla disco music. In Italia, invece, avverto sempre il nepotismo, la casta! O ti fai battezzare da qualche ‘Padrino della musica’ oppure farai fatica. Questo non va bene! Nel periodo pandemico, sulla rete ho poi scoperto Sabrina Schinaia con la quale abbiamo realizzato dei brani. Tra i musicisti: Alex Bailey (batteria e percussioni con Marcus Miller, Paul Jackson Jr), Eric Daniel (Sassofono e Flauto con Zucchero, Natalie Cole), Dario Deidda (Basso elettrico ed acustico con Danilo Rea, Paolo Fresu, George Coleman), Elisabetta Serio (Piano con Pino Daniele) e tanti altri. Due miei amici, poi, Paolo Termini e Emilio De Matteo, mi parlarono di una giovanissima cantante jazz napoletana di appena 25 anni, parlo di Annina Galiano. Oggi insieme a lei e con un collettivo di musicisti amici stiamo realizzando un nuovo percorso: ‘Cappuccio Collective Smooth’. Insomma, un chitarrista sotto le mentite spoglie di produttore. Abbiamo già suonato a Milano, al ‘Teatro Bello’ gli scorsi 13 e 14 gennaio e poi ci esibiremo a Roma, il 18 febbraio all’ ‘Alexander Platz’, il 29 marzo al ‘Teatro Arciliuto’ (situato all’interno di Palazzo Chiovenda, antica dimora cinquecentesca in Piazza di Montevecchio) ed in entrambi gli appuntamenti sarà con noi nelle vesti di guest star il grande Eric Daniel. Con me e la talentuosa Annina Galiano ci sarà Aris Volpe alla batteria, Andrea Iannucci al basso e l’impeccabile Cristina Massaro a quel grande piano che si chiama Fender Rhodes. Un’artista precisa armonicamente ed elegante nella scelta dei rivolti.

In sintesi il ‘Cappuccio Collective Smooth’, evoca con sonorità moderne le atmosfere smooth jazz degli anni ’80, tendendo verso un raffinato ‘easy listening’, spogliato delle complicazioni formali proprie del jazz ‘puro’ e del jazz-rock maggiormente sperimentale. L’accento sulle melodie e la contaminazione con influenze diverse, inclusa la disco music, diluisce, ma non annulla l’impronta jazzistica, confluendo in un mood sofisticato e dalla vocazione internazionale, vicino ai parametri estetici della fusion.

Antonino Ianniello

Nasce con una spiccata passione per la musica. Si laurea in lettere moderne indirizzando la scrittura verso il giornalismo, percorre in maniera sempre più approfonditamente e competente le strade della critica musicale, pubblicando numerosi articoli su jazzisti contemporanei e prediligendo, spesso, giovani talenti emergenti. Ama seguire il jazz, blues e fusion e contaminazioni.

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